la Repubblica, 11 dicembre 2014
Carminati e Buzzi, ovvero il criminale nero e il faccendiere rosso uniti da un comune destino di dannazione e redenzione. E nella vicenda compare persino la Santissima Trinità, cioè l’ombra del Vaticano
Legge Delitto e castigo nella cella di Regina Coeli, Maurizio Carminati, il “re di Roma” protagonista di “Mafia Capitale”, una storia di dannazione e redenzione, una strampalata miscela di depravazione totale e di impossibile riscatto. Non stupisce la passione per Dostoevskij del criminale che uccide, minaccia, massacra, corrompe, ma deve credere di incarnare, nel suo delirio di superomismo, un eroe nietzschiano dotato anche di codici morali. «Finché mi accusano di omicidi... – ringhia in più di una conversazione telefonica con i suoi adepti – ma la droga no». Spiega: «Finché mi dicono che sono il re di Roma mi sta pure bene, come l’imperatore Adriano... Però sugli stupefacenti non transigo, voglio andare a parlare col procuratore capo e dirgli: se sono il capo degli stupefacenti a Roma mi devi arrestare immediatamente».
Capite? Il boss «di mezzo» vuole andare dal procuratore capo a difendere la sua auto-percepita «onorabilità». Lui non «pippa» come il suo luogotenente Riccardo Brugia, ha uno stile di vita «monastico» – racconta Giuseppe Grilli, lo skipper beccato con 500 chili di cocaina a bordo – «torna a casa e pensa ai suoi cani e ai suoi gatti». Ma soprattutto non spaccia. A sentirlo parlare al telefono di droga sembra don Vito Corleone che dà una lezione di “etica” della vecchia mafia alle cosche nemiche che invece vogliono entrare nel business proibito. Eppure, il teatro nel quale Er Cecato dà le sue rappresentazioni, quel quadrilatero tra Vigna Clara, Vigna Stelluti, Ponte Milvio, il palazzo di Trony e dei fratelli La Bufala, è traversato da un secondo fiume oltre il Tevere: un fiume impetuoso di cocaina. È il mercato più fiorente di polvere bianca della capitale, secondo forse soltanto a quello della chirurgia plastica delle signore mesciate.
Proviamo pure a prendere per buona l’indignazione del Cecato e ammettiamo che il business della droga sia in mano non al suo “Mondo di mezzo”, ma ad altre cosche, magari quella di Michele Senese che il 30 aprile scorso fu ripreso dai carabinieri in una violenta lite in strada con Carminati davanti al bar Franco. Il “lodo droga” è tuttavia soltanto un’appendice della tragedia depravazione-riscatto, male-bene, dannazione-redenzione che va in scena nell’inchiesta della procura romana sulla “Mafia Capitale”. Basta rileggere la storia di Salvatore Buzzi, quello che proclamava come con gli immigrati, gli zingari e i disperati di ogni natura si facessero affari più cospicui che con la droga. E qui sovviene la filosofia di uno degli interlocutori mafiosi di don Vito Corleone, il quale sentenzia: «Nella mia città limiteremo il traffico ai negri e alla gente di colore, tanto sono bestie, anche se si dannano, peggio per loro».
La storia di Carminati è, in fondo, una consueta storia di criminalità e terrorismo nero. Dalle rapine agli omicidi politici, alla criminalità tout court senza alibi ideologici. Quello di Buzzi, invece, è un copione ben più singolare che nasce nella delinquenza e nella delinquenza torna ad approdare dopo un lungo percorso che molti hanno creduto ed altri voluto credere commendevole. Tutto comincia trenta anni fa: il 29 giugno 1984, la data che diede il nome alla cooperativa criminale di Buzzi-Carminati. Nel carcere romano di Rebibbia, Buzzi, che sconta una pena per omicidio, dopo aver preso in cella una laurea in Lettere moderne (cosa che dall’eloquio nelle intercettazioni sembra impossibile), organizza un convegno dal titolo:”Le misure alternative alla detenzione e il ruolo della comunità esterna”. Si è già fatto notare perché ha messo in scena con gli altri carcerati l’ Antigone di Sofocle, interpretando egli stesso il ruolo di Creonte. Partecipano al convegno Pietro Ingrao, sua moglie Laura Lombardo Radice – che poi firmerà l’atto costitutivo della cooperativa “29 giugno” – don Luigi Di Liegro e l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, guidato dal giudice Nicolò Amato. Non il “Mondo di Sopra” inteso da Carminati come quello di politici, manager e colletti bianchi dalle scarse virtù, ma il mondo alto davvero di una volta, quello impersonato, per l’appunto, da personaggi come Pietro Ingrao.
Nessuno può dire se la deriva delinquenziale fosse già nei progetti di Buzzi al momento della creazione della cooperativa “29 giugno”, ma dinanzi ai fatti non può non sovvenire – e ne chiediamo scusa – la teoria lombrosiana del “criminale per nascita”. Ma siccome vogliamo considerarla fallace e credere invece che chiunque può essere recuperato all’onestà e alla società civile, preferiamo pensare che Buzzi e i suoi sodali si siano imbattuti via via nel sistema politico fondato sulla grassazione delle pubbliche risorse, sul quale hanno avuto facilità ad imbarcarsi surfando abilmente sui loro scopi sociali apparentemente nobili. Gli ex detenuti e poi i diseredati, gli zingari, gli immigrati clandestini, i disperati in fuga dalle guerre, i rifugiati, tutto un mondo bisognoso di carità. Ma una carità pelosa, nera nera, da dividere, nel flusso monetario pubblico ben superiore al costo dell’assistenza garantita in condizioni vergognose, con i politici corrotti e con la criminalità. Chi allora meglio degli assassini neri dei Nar, soprattutto quando sul massimo scranno della Capitale approda Gianni Alemanno, che i camerati consideravano in gioventù un pischello senza fegato e senza palle e che Carminati, ai tempi, «corcò de brutto». L’ultima invenzione “imprenditoriale” di Buzzi e Carminati “ner sociale” è uno studio medico dentistico e oculistico per immigrati. Il comune deve scucire 170 mila euro per le attrezzature, ne restano 50 di stecche, ma soprattutto bisogna assumere i figli medici dei dirigenti del comune: «Ce stanno i figli che so’ dentisti, devono lavorà».
Come stupirsi se nella saga dannazione-redenzione compare persino la Santissima Trinità? I rapporti tra criminalità e settori del Vaticano sono ben noti fin da quando il capo della banda della Magliana fu sepolto nella cripta di Sant’Apollinare. Ma ammazzato lui, le relazioni d’affari non furono interrotte con Mokbel, Carminati e altri criminali neri. Per cui non stupisce affatto che Luca Odevaine, membro del tavolo dei rifugiati del Viminale, intercettato chieda lumi su un affare a Tiziano Zuccolo, camerlengo dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone: «Senti caro, hai qualche novità te dal Vicariato?». E quello: «...abbiamo deciso di fare un passaggio alto, molto alto, ma proprio alto, più, molto alto... di li non si arriva di più». E l’ex segretario di Veltroni, secondo l’accusa passato con i banditi, sospira: «La Trinità!».
Per Santa Romana Chiesa Cristo è il salvatore dell’umanità e non è necessario avere un rapporto con lui per essere salvati. Ma si ha proprio l’impressione che per Papa Francesco le opere buone, soprattutto se poi diventano cattive, non bastano per essere redenti, per lui non sembra sufficiente il concetto di “redenzione limitata”. Quel po’ di calvinismo che servirebbe più di ogni altra cosa a questo paese marcito?