Corriere della Sera, 11 dicembre 2014
Don Camillo fu ispirato da un prelato un po’ manesco che Guareschi temeva da piccolo. Ora il Corriere ripropone tutti i racconti in 23 volumi, iniziando da Mondo piccolo
Prigioniero in un lager, rinchiuso lì da quelli che fino a poco prima erano gli alleati in trincea, perché non aveva voluto infrangere il giuramento di fedeltà al re d’Italia, prestato al momento di andare sotto le armi. Fu uno dei 700.000 connazionali che conobbero il destino di Imi (cioè Militari italiani internati). Giovannino Guareschi passò due Natali così, nel 1943 e nel 1944. Aveva trentacinque anni e aveva già rodato la sua grande vena creativa da caporedattore al «Bertoldo», bisettimanale di satira, neanche troppo ostile al regime, sopravvissuto fin quando il fascismo aveva dimostrato di non poter più sopportare una pur minima dose d’ironia.
Allo Stalag XB di Sandbostel, rannicchiato nella cuccetta inferiore di un letto a castello, Guareschi compose La favola di Natale nel dicembre 1944 (ma i disegni a corredo del testo sono posteriori, tracciati da Giovannino in una serata di «malinconia» per le delusioni dopo il rientro in Italia). La ragione la spiegò anni dopo, in un’intervista: «Sta per arrivare il Natale: perché non scrivi una bella favola per questi pezzenti divorati, come te, dalla fame, dalle pulci e dalla nostalgia? È un modo come un altro per riportarli ai pascoli domestici, per riattaccarli alla vita».
È la storia di un bambino, una nonna e un papà prigioniero che si incontrano in un bosco fantastico, popolato di sogni e di paure. Venne recitata, la notte della vigilia, in una baracca del lager. «Non ho mai letto una migliore rappresentazione della prigionia, della patetica, disperata ma inesauribile ricchezza emotiva della prigionia...», scrisse Oreste del Buono in Amici, amici degli amici, maestri.
Non poteva che incominciare da questo dolce e dolente racconto (intrecciato, peraltro, con qualche polemica) la serie di libri che, da domani, presenta ai lettori del «Corriere» e di «Oggi» l’opera di uno fra i più amati scrittori del nostro Novecento. La polemica è resa esplicita nell’appendice curata da Alberto e Carlotta, i figli dell’autore, che non mancano di ricordare l’acre trattamento riservato a Guareschi dalla sinistra italiana. Anche da chi, come Alessandro Natta – dal 1984 al 1988, segretario del Pci – aveva condiviso il destino di Imi. Fu proprio Natta, anzi, a bollare la favola guareschiana come «espressione lacrimosa e qualunquistica».
La favola di Natale uscì nel dicembre 1945, non per Rizzoli, la casa editrice dove lavorava Giovannino (e che pubblicherà tutte le sue opere) ma per le Edizioni riunite di Milano, perché Rizzoli non sarebbe stata in grado di distribuire il libro prima delle festività.
Da domani, La favola illustrata da Guareschi è in omaggio per chi acquista il primo volume della collana, quello che segna il debutto dell’eroe di una saga popolarissima (nonché motore di un successo editoriale fra i più persistenti della letteratura italiana contemporanea), ovvero don Camillo. Anche questa è una curiosa storia editoriale. Alla Rizzoli – che allora era in piazza Carlo Erba, a pochi passi dalla casa dove Guareschi viveva – Giovannino era figura versatile, oltreché ormai un veterano: la sua firma compariva su diverse testate. E quel racconto era destinato a «Oggi», il settimanale appena risorto sotto la direzione di Edilio Rusconi. Era già composto e pronto per entrare in pagina quando sorse un problema: i tempi della tipografia prevedevano che il «Candido» andasse in stampa prima di «Oggi», e al «Candido» erano rimasti dei vuoti da riempire. Fu così che rapidamente Don Camillo cambiò destinazione, finì sul giornale diretto da chi l’aveva scritto. Un cambio fortunato: il successo innescò l’epopea di Mondo piccolo.
E qui si può dar risposta a un’ultima curiosità: don Camillo è ispirato alla figura di un prete realmente esistito? C’è chi parla di don Camillo Valota, partigiano durante la Seconda guerra mondiale poi deportato a Dachau e Mauthausen, e chi fa riferimento a don Ottorino Davighi, parroco di Polesine Parmense.
Due ipotesi smentite da Alberto Guareschi: «Il primo, mio padre non l’ha mai conosciuto. Il secondo sì, ma nel 1952, quando don Camillo esisteva da un pezzo». L’ispirazione, piuttosto, rimanda all’infanzia dell’autore: «A Lamberto Torricelli, arciprete di Marore in provincia di Parma. Un omone alto due metri, che usava volentieri le mani, grandi anche quelle. Le deve avere assaggiate anche mio padre, in un momento difficile della carriera scolastica, quando era un po’ ribelle: sberle “radenti”, che non lasciano il segno ma rimettono a posto le idee», ricorda ancora il figlio: «Certo, non mi dispiace che siano stati molti i preti a considerarsi ispiratori di don Camillo: vuol dire che il personaggio colpiva nel segno». Anche se è difficile ritrovare il gigantesco Torricelli nel minuto Fernandel dei film: «Vero. Del resto, mio padre all’inizio avrebbe preferito un altro interprete. Visto il risultato, però, ripeteva che quello non era il suo don Camillo ma Fernandel era talmente bravo che, da allora in poi, immaginava il suo personaggio proprio con la faccia dell’attore francese».