il Giornale, 10 dicembre 2014
La finanza araba alla conquista dell’Europa nel nome di Allah. Manager e società islamiche dicono di non investire in «settori immorali», intanto il loro giro di affari è cresciuto vertiginosamente: oggi vale 138 miliardi all’anno
Nel nome di Allah clemente e misericordioso: è la recita del Corano aprire la prima giornata del World Islamic Banking Conference, il raduno mondiale della finanza islamica. Milleottocento delegati pagano oltre tremila dollari a testa per riunirsi tra i marmi e i velluti del Gulf Hotel di Manama, capitale del Bahrein, uno dei microstati sperduto nelle sabbie e nei petrodollari del Golfo Persico.
Direttori delle Banche centrali, presidenti di piazze azionistiche, studiosi di sharia dal Golfo e dal Maghreb, dall’Iran e dall’Indonesia: si ritrovano, certo, per lodare Allah, ma anche, soprattutto, per celebrare il dio denaro. La finanza islamica è in crescita da anni. Secondo il quarto rapporto dell’International Islamic Financial Market, pubblicato a novembre, il mercato globale dei sukuk (certificati di investimento conformi alla legge islamica, ndr) è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi tredici anni. Da un giro d’affari di 1,172 miliardi di dollari nel 2001 si è passati ai 138 miliardi del 2013.
Istituti di credito e servizi finanziari di diritto islamico continuano a moltiplicarsi anche fuori del mondo musulmano. Alla conferenza ci sono delegazioni da Londra e Berlino, Parigi e Lussemburgo. Numerosi, gli europei, anche tra i cosiddetti Sharia advisors. Gli studiosi della legge islamica verificano la conformità di prodotti e servizi finanziari con la sharia. Quello dei controlli di conformità alla sharia è un business molto lucroso, per chi fiuta l’affare. Con il volume d’affari legati alla finanza islamica, cresce anche la richiesta di società abilitate a rilasciare certificazioni di idoneità. «L’islam infatti non consente di investire in settori economici considerati immorali, come il commercio di alcolici, il gioco d’azzardo o la pornografia – ci spiega, avvolto nel suo turbante bianco, Yasser Saud Dahlawi, presidente di una di queste società – Inoltre vi sono norme molto rigide sui guadagni conseguiti dagli interessi sui prestiti in denaro».
Proprio il rispetto di norme etiche così rigide, a sentire gli addetti ai lavori, costituisce uno dei fattori chiave di questa crescita esponenziale. Sayeeda Warsi, ministro del primo gabinetto Cameron e primo membro del governo inglese di fede islamica, ci spiega: «In Gran Bretagna la finanza islamica è una realtà da trent’anni e un’alternativa, dopo la crisi, per chi cerca una banca con valori etici». Un fantasma indicibile, però, aleggia su tutto: il terrorismo. Nelle scorse settimane, Newsweek ha rivelato come i jihadisti vengano finanziati dal contrabbando di petrolio e di reperti archeologici rubati dai musei, senza parlare dei milioni di dollari in contante prelevati dalle banche dei territori controllati dal Califfato. Per mantenere l’esercito del Califfo servono dai 70 agli 80mila barili di petrolio al giorno, 1,5 miliardi di dollari rubati alle banche, senza contare i riscatti chiesti per gli ostaggi. Dagli Stati del Golfo, poi, sono arrivate donazioni per 40 milioni di dollari.
Naturalmente qui, sotto gli occhi delle telecamere, parole come Isis e terrorismo sono tabù. Chi è disposto a parlare, lo fa con cautela. «Ci sono gravi equivoci sul significato di parole come jihad e sharia – dice la Warsi – Purtroppo c’è chi commette atti terribili in nome dell’islam e già questo ci dà una cattiva fama. Contro questi pregiudizi bisogna enfatizzare i princìpi su cui la nostra finanza etica si fonda».
Stop. Per il resto, bocche cucite. Anche solo sollevare l’argomento provoca reazioni infastidite e alzate di spalle assai eloquenti. Ai tavoli di discussione si parla, al massimo, delle strategie per imporre la supremazia della finanza islamica su quella occidentale. Lo conferma Khalid Hamad, executive director della Banca centrale del Bahrein: «La crisi spinge sempre più persone verso di noi. Siamo pronti a esportare il nostro modello, stiamo intensificando gli sforzi in Europa, America, estremo Oriente... e anche verso l’Italia».
E, sorpresa, alla conferenza un italiano c’è. Alberto Di Gennaro, editore della rivista di finanza islamica «Alim», spiega: «In Italia manca un quadro legislativo che consenta la nascita di banche di diritto islamico, ma qualcosa si muove: oltre ai primi fondi d’investimento, alcuni avvocati iniziano ad offrire servizi di consulenza a chi voglia fare finanza islamica nel nostro Paese». A Manama, intanto, tutti gli interventi iniziano con As-salamu Alaykum, il saluto arabo, ma poi si svolgono regolarmente in inglese. La finanza islamica parla al mondo, forte dei numeri che continuano a premiarla. Il mondo, giocoforza, sarà costretto a tenerne conto.