Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 10 Mercoledì calendario

Ecco perché non si riesce a far rientrare nemmeno 24 cervelli. Il flop del bando “Montalcini” che doveva riportare i ricercatori italiani dall’estero

Doveva essere un passo importante, simbolico e concreto, per invertire la tendenza. Dal «brain drain» al «brain gain». Dalla fuga al rientro dei cervelli. E invece il progetto inaugurato nel 2009 dall’allora ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini e intitolato a Rita Levi Montalcini è stato un mezzo flop. Tanti erano e rimangono i punti deboli nei bandi annuali, pensati per far rientrare i ricercatori italiani dall’estero. Si parte dal meccanismo di selezione, che mette vincoli d’età molto stretti ed esclude troppi studiosi prima di valutarli. E si finisce per constatare le tante rinunce tra i candidati vincitori, che prima concorrono e poi – scoraggiati dalle prospettive in Italia o da atenei che incredibilmente rifiutano di accoglierli – abbandonano.
In palio ci sono ogni anno cinque milioni di euro per 24 assegni di ricerca. I requisiti di base sono due, ma fin troppo selettivi: aver concluso il dottorato da meno di sei anni e lavorare stabilmente all’estero da almeno tre. Ci si candida presentando un progetto e tre università dove realizzarlo. Poi un comitato indipendente decide, in tempi parecchio lunghi, chi saranno i vincitori. Avranno ciascuno tre anni di contratto a tempo determinato, 175 mila euro totali di stipendio e una quota variabile per le spese di ricerca. In più, alla fine del triennio, la possibilità – ma non la certezza – di diventare professore associato.
Il programma non è organico e si rinnova di anno in anno con un decreto ministeriale. Quello del 2014 aspetta il via libera della Corte dei Conti e sarà pronto entro il 31 dicembre. Conterrà una novità importante: prima della pubblicazione del bando vero e proprio alle università italiane sarà chiesto di assicurare la propria disponibilità ad accogliere i vincitori.
Non una postilla da poco, perché la più grande voragine che i bandi Montalcini hanno trovato sulla strada è questa: troppo spesso gli atenei non si prestano al gioco. Lo spiega Luigi Maiorano, presidente dell’Apri, l’associazione dei precari della ricerca. «Le università non li vogliono e per questo molti vincitori hanno finito per rinunciare. Arriverebbero a costo zero, ma saltando le file dei colleghi in attesa. E così, per non rompere gli equilibri del dipartimento, spesso sul merito prevale l’anzianità».
Boom di rinunce
L’ultimo decreto arrivato in porto è quello di fine 2012. Tra bando, selezione, rinunce – ben 11 per 24 posti – e subentri, c’è voluto poco meno di due anni. E la lista dei vincitori è stata completata solo lo scorso 10 ottobre. «Il bando esce ogni volta senza la dovuta pubblicità sulle riviste scientifiche e si chiude in un mese, troppo in fretta. E i criteri d’età sono insensati e penalizzano persino chi ha preso il dottorato molto presto». Più di qualcuno, così, ha proposto di ripensare i meccanismi del progetto. Di ammorbidire i criteri troppo esclusivi per età e provenienza, alzare l’asticella sulla qualità di progetti e curricula, uniformare tutto ai bandi dello European Research Council. 
Ma c’è un altro tasto dolente: quello della stabilità e della stabilizzazione di chi vince il concorso. Scaduti i tre anni di assegno, prospettive certe – nel sistema italiano – non esistono. «Per me è il solo aspetto che non va nel Montalcini, ma è quello che mi ha portato a rinunciare», spiega Agnese Seminara, selezionata con il bando 2010. «Ho vinto un posto da ricercatore Cr1 al Cnrs in Francia e ho scelto quello, perché è a tempo indeterminato. Seguendo gli sviluppi dei ricercatori tornati con la borsa, mi sembra di capire che la stabilizzazione non sia per nulla scontata».
Appena un anno fa, a dicembre 2013, l’allora ministro Carrozza auspicava questo: che questo tipo di bandi offrisse posti a tempo indeterminato. Poco prima c’era stata la protesta dei vincitori del primo concorso, datato 2009. Costretti a scrivere ai giornali perché, dopo i primi tre anni da cervelli rientrati, nessuno dava risposte sul rinnovo. «Ma oggi non c’è più il “tre più tre” legato alla vecchia legge», spiega Daniele Livon, direttore generale del Miur per l’università, lo studente e il diritto allo studio. «I vincitori di bando ora hanno tre anni di assegno di ricerca e poi, se abilitati, possono diventare professori associati, con stipendio finanziato al 100% dal ministero».
Gli atenei avrebbero tutto l’interesse ad accogliere e stabilizzare. Non farlo è assurdo anche sul piano economico. «Nell’ambito della programmazione 2013-2015 – prosegue Livon – sono previsti incentivi specifici e fondi per le università che inseriscono in organico ricercatori che prima lavoravano all’estero. Per questo, prima che esca il bando, chiederemo alle università di fare un’assunzione di responsabilità. E indicare se sono disposte ad accogliere i vincitori. Mi auguro lo siano tutte».