il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2014
Lavoro, ora licenziare conviene: il pasticcio del Jobs Act. Con la nuova legge, che cancella l’articolo 18, l’imprenditore che caccia dipendenti per riassumere ci guadagna
Gli elementi oscuri del Jobs Act spuntano come funghi. Come quello denunciato dalla Uil alla voce “licenziare conviene”. Ma si potrebbe proseguire con i vizi già denunciati dal professor Francesco Giavazzi sulla mobilità negata nel mondo del lavoro. Oppure sulle disparità che si verranno a creare tra lavoratori impiegati nelle stesse mansioni e nello stesso posto di lavoro ma con contratti diversi.
Più tagli occupati, più soldi incameri
Il risvolto conveniente del licenziamento era deducibile già a una prima lettura del Jobs Act. La Uil, però, si è incaricata di quantificarlo mettendo a confronto gli sgravi da nuove assunzioni per le imprese con le ipotesi di indennizzi che potranno essere erogati a fronte di un licenziamento economico. Questo, prima del Jobs Act, se ritenuto illegittimo da un giudice, prevedeva il reintegro, sia pure rivisto dalla legge Fornero; ora, le nuove norme prevedono un indennizzo “certo e crescente”. Di quanto? Le stime ruotano attorno a una mensilità e mezzo per anno lavorato. Secondo il sindacato diretto da Carmelo Barbagallo la differenza tra il costo del licenziamento e il guadagno dello sgravio contributivo oscillerebbe tra 2.800 e più di 5.000 euro per ogni lavoratore. Licenziare un lavoratore, quindi, sia pure ingiustamente, per assumerne un altro potrebbe convenire E anche molto. Una falla evidente che può essere risolta in due soli modi: prevedere una norma che vieti alle imprese di assumere in presenza di un licenziamento ingiustificato oppure alzando gli indennizzi a un livello non più conveniente. La decisione del Pd al Senato di presentare una norma contro “i licenziamenti facili” (vedi articolo in basso) fa pensare che il problema ha più di un fondamento.
Fermi sul posto, l’eddio alla mobilità
Così come resta irrisolto il problema evidenziato sulle pagine del Corriere della Sera dal professor Giavazzi, il quale scrive: “Il rischio maggiore è il blocco della mobilità”. “È improbabile – afferma – che un lavoratore oggi tutelato dall’articolo 18 decida di spostarsi, firmando un nuovo contratto che invece non lo prevede. Alcuni lo faranno perché non temono il licenziamento, ma altrettanti non ne vorranno sapere”. Non si recupererà alcuna mobilità e chi ha un posto di lavoro farà di tutto per non perderlo senza avventurarsi in territori sconosciuti. I tentativi di replicare alle osservazioni di Giavazzi da parte del senatore Pietro Ichino – relatore del provvedimento in seconda lettura al Senato – non hanno risposto al cuore della domanda, lasciando irrisolto il problema.
Tutti meno uguali: chi è garantito, chi no
Così come rimane irrisolto quanto sollevato più volte dalla Cgil, la disparità di condizioni tra lavoratori impiegati nelle stesse mansioni. Secondo l’articolo 3 della Costituzione, infatti, “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”. Un lavoratore assunto dal momento in cui il Jobs Act sarà in vigore, però, non godrà degli stessi diritti di uno che è stato assunto prima. E questo, nonostante abbia lo stesso contratto, a tempo indeterminato e sia impiegato nella stessa condizione. Fonti della Cgil hanno più volte ribadito che potrebbe essere proprio questo l’appiglio per ricorrere in sede europea contro la legge-simbolo del governo Renzi.
La stessa Cgil ha scandito una serie di “domande e risposte” sul provvedimento a cura di Corrado Ezio Barachetti che si occupa di contrattazione nazionale. Il dirigente sindacale fa notare alcuni punti incongruenti della norma di legge. Matteo Renzi ha sbandierato più volte l’abolizione dei co.co.pro, ma il testo parla solo di “superamento”.
“Richiami che non possono essere scambiati con la sua abolizione, così come la semplice individuazione delle forme contrattuali esistenti, in ragione di una loro semplificazione, non può valere un reale disboscamento in favore di poche forme contrattuali”. Al di là di quello che si pensa sul demansionamento – e su queste pagine abbiamo già spiegato ampiamente come cambia, in peggio, la normativa – il provvedimento, fa notare la Cgil, punta a “un’azione unilaterale del governo” visto che la nuova regolarizzazione “può” e non “deve” definirsi in sede di contrattazione collettiva anche di secondo livello. Secondo il presidente del Consiglio, poi, il contratto a tutele crescenti diventerà la norma dei rapporti di lavoro ma nel provvedimento non si parla mai di abolire i contratti a termine acausali, quelli che prevedono fino a cinque rinnovi in 36 mesi senza specificazione della causale: come si può ritenere che agli imprenditori convenga di più quello a tutele crescenti, si chiede Barachetti?
Infine, per i licenziamenti economici si definisce un indennizzo “certo e crescente”. Vuol dire, quindi, che verrà esclusa “l’attuale discrezionalità del giudice nello stabilire il giusto compenso”? Oppure il “certo” “sarà puntualmente declinato nei suoi valori? Quali?”. Le domande sono più delle risposte. Così come i pasticci di una legge che non è ancora legge.