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 2014  dicembre 10 Mercoledì calendario

Il malaffare politico e il parassitismo fiorente, da Tangentopoli a Mafia Capitale

Tiene banco la scoperta del malaffare capitolino: una congrega a varie anime (underground nero, Magliana, trame mafiose), infiltrata nel Pd, gestisce appalti lucrando su raccolta dei rifiuti, campi d’immigrati, manutenzione del verde pubblico. Stupore, scandalo, sdegno: ed essendo sinora centouno i variamente coinvolti, molti in custodia cautelare, sa d’eufemismo la metafora «mela marcia». Matteo Renzi reagisce nel solito stile, a imperiosi gesti verbali, nominando un commissario: Matteo Orfini, presidente del partito, ex capo dei «giovani turchi»; né poteva mancare una «task force». Ventitré anni fa Bettino Craxi definiva «mariuolo» il presidente del Pio Albergo Trivulzio, sorpreso col denaro caldo in tasca. Il risanatore del partito era un ex sindacalista Psi, poi ministro e presidente dell’Antimafia, Ottaviano Del Turco: nel luglio 2008, governatore dell’Abruzzo, finisce in vinculis, quale tangentocrate d’una Sanità vertiginosamente gonfia; da Parigi nell’anniversario della Bastiglia l’allora premier Silvio Berlusconi inveisce contro l’ultimo «teorema» d’invadenti toghe; le imbriglierà. Esiste una compagnia degl’impuniti: campagne mediatiche lo davano innocente, assolto a colpo sicuro; il processo pende in appello dopo una condanna a nove anni e sei mesi. L’argomento invita all’analisi storica: come mai fioriscano tali commerci; e quanto vi sia organicamente coinvolta la classe politica.
L’evento milanese 17 febbraio 1992 ha effetto domino: dovunque l’inquirente scavi, brulica politica infetta. Gli ottimisti sperano una metamorfosi virtuosa, oltre palude democristiana e plumbeo dogmatismo comunista (squalificato dalla crisi nella Chiesa madre moscovita). La mutazione genetica era illusoria. In Sicilia Cosa Nostra ha subìto duri colpi e risponde uccidendo in forme spettacolari chi la perseguiva: sabato 23 maggio, mentre le Camere eleggono un presidente della Repubblica, saltano in aria Giovanni Falcone, sua moglie, la scorta; cinquantasette giorni dopo, tocca a Paolo Borsellino; lo Stato reagisce isolando i boss detenuti (art. 41-bis: comunicavano facilmente con l’esterno); misura molto sofferta dalla cupola. In settembre, Vito Ciancimino voleva stabilire contatti: lo sappiamo da Luciano Violante, testimone tardivo; allora presiedeva l’Antimafia. Tra maggio e luglio 1993 esplodono autobombe a Roma, Firenze, Milano: morti, feriti, offese al patrimonio artistico; l’esplosivo dirocca due basiliche nel cui titolo figurano i nomi dei presidenti delle Camere (la mafia è semiologa). Nell’udienza al Quirinale del 28 ottobre 2014, Giorgio Napolitano racconta che l’allusione fosse perfettamente intesa nel mondo politico: saltava agli occhi l’intento estorsivo, liquidare l’art. 41-bis; non rammenta però uno Stato transigente. Gli archivi suonano altra musica. Fin da giugno il nuovo vertice penitenziario consigliava la «distensione» carceraria conseguibile a quel modo: varie voci contraddicono segnalando i pericoli d’una maniera molle ma provvedimenti ministeriali del 5 novembre restituiscono al regime consueto 334 importanti mafiosi. Non è routine. Scelte simili coinvolgono il governo.
Nei mesi seguenti nasce una mai vista creatura politica: ponti o celle con le sbarre sono dimore scomode (parla Fedele Confalonieri, custode dei segreti); così diventa «statista» l’uomo che s’era fondato un impero economico e mediatico praticando falso, frode, corruzione, plagio. Gli sta al fianco l’inseparabile Marcello Dell’Utri, i cui legami con la piovra constano dalla condanna a sette anni (li espia): «Dobbiamo convivere», esorta un ministro del secondo governo forzaitaliota; e convivono proficuamente, visti i sessanta seggi su sessanta vinti nell’isola. Il modus vivendi tra Repubblica d’Italia e dominio mafioso richiedeva qualche ritocco delle norme. Re Lanterna spaccia garantismi criminofili: perde i colpi un ferrovecchio penale faticoso, lento, sistematicamente inibito; ogni anno sfumano 150mila casi, «prescritti» ossia estinti da termini iugulatori. La criminalità white collar è una prediletta berlusconiana. L’universo mafioso vi rientra nella parte in cui assume figure finanziarie, commerciali, industriali: gigantesca impresa, allunga i tentacoli. Ma colletti bianchi malfattori patiscono le spie meccaniche occulte, e qui l’Olonese non è ancora soddisfatto: l’ideale sarebbe che nessuno v’interferisse, affinché comunichino sicuri, essendo tabù qualunque cosa dicano privatamente. Le intercettazioni sono bestia nera in quest’allegra ideologia.
I parlamentari godono d’un privilegio: chi vuol intercettarli chieda l’assenso della Camera competente: solenne “en garde” e sarebbe meno ipocrita l’assoluta immunità; l’avvertito non parla più o misura le parole. Quando poi l’onorevole locutore s’infili in linee altrui, soggette a controllo, l’assemblea concede o nega l’uso dei reperti, sovranamente. Regna la casta. Giovedì 4 dicembre Palazzo Madama sottrae all’indagine e al futuro eventuale processo le emissioni vocali d’Antonio Azzolini, presidente Ncd della commissione bilancio: ballano 147 milioni d’una truffa allo Stato, frode in pubbliche forniture, associazione a delinquere, reati ambientali ecc.; così la procura di Trani configura i fatti. L’interessante è che, tolto qualche dissenso, niente distingua i senatori Pd dai berluscones delle due famiglie: con distintivi diversi sotto il bavero conducono lo stesso gioco; vedi Kafka, Il processo, in fondo al secondo capitolo. Gli «emblemata» erano un genere letterario: figure simboliche, talvolta accompagnate da chiose o versi; è famosa la raccolta d’Andrea Alciato, luminare della giurisprudenza colta cinquecentesca. Volano o rampano grifone, aquila, cavallo, leone, ma dovendo definire emblematicamente il parassitismo fiorente in Italia, sceglieremmo animali meno nobili, quali pidocchio e vampiro.