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 2014  dicembre 10 Mercoledì calendario

A quarantotto ore dell’infarto che ha stroncato Mango, muore di crepacuore anche il fratello Giovanni, 65 anni, ex muratore. Si è sentito male durante la veglia funebre. Quando perdere un affetto trascina alla morte

«Che gran vuoto abbracciai» recita un verso d’una canzone di Mango. Nel brano scorre via tra gli altri, che parlano di un amore. Nella realtà di ieri mattina si è isolato e stagliato quando abbraccio e vuoto si sono moltiplicati nel malore che ha fatto accasciare Giovanni, il fratello maggiore di Pino, morto per infarto la sera di domenica mentre sul palco cantava «Oro».
Settantacinque anni, muratore in pensione, sposato, Giovanni Mango si è sentito male nella casa dov’era allestita la camera ardente. È stato soccorso, portato in ospedale, ma poco dopo il ricovero è morto, ventiquattr’ore prima del funerale del cantautore, previsto per le 10 di questa mattina.
Se lasciano smarriti le immagini di Giuseppe Mango che seduto alla tastiera si interrompe e fa in tempo a chiedere scusa, sgomenta quest’altro subitaneo vuoto. Avvezzi alla morte esibita e banalizzata in televisione e in Rete, riscopriamo il dilagare di un dolore cui spesso non badiamo: quello di chi resta, che sia colto di sorpresa dall’addio o abbia avuto il tempo di scontarlo condividendo e lenendo sofferenze.
È l’istantanea dei legami possenti che soccombono all’ineluttabile. Ne fu emblema la solida e autoironica coppia Vianello-Mondaini. Raimondo morì il 15 aprile 2010 e Sandra lo seguì il 21 settembre. Ma quella condivisione di vite che senza scegliere, con naturalezza, si spengono a poca distanza affolla la cronaca minuta, quella che incrocia e racconta gli sconosciuti.
Una quindicina di giorni fa a Galta di Vigonovo, in provincia di Venezia, un uomo di 79 anni è morto in ospedale. Dopo la cerimonia funebre, mentre davanti al portale della chiesa caricavano la bara sul furgone e parenti e amici si avvicinavano per le condoglianze, la moglie, è crollata a terra, uccisa da infarto.
Sono molte le pagine da sfogliare. Inizio novembre, a Giugliano (Napoli), dopo un’esistenza accanto, lui, 76 anni, finisce in sala operatoria, ma l’intervento non lo salva. La moglie si spegne poco dopo le esequie. A Saonara (Padova) marito e moglie sono entrambi malati. La donna, 78 anni, è ricoverata in ospedale, l’uomo finisce in un altro. Viene dimesso prima lui. Torna a casa accompagnato dal nipote, che riceve una telefonata: lei non ce l’ha fatta. Il nipote racconta: «Non so se ha sentito che cosa mi dicevano o se ha capito dal mio atteggiamento. Ma si è chiuso, non ha più parlato. Si è lasciato andare». È morto lo stesso giorno.
È un percorso tra dolore e tenerezza. Sono per lo più coppie anziane e negli articoli di giornale accompagna la notizia un album di matrimonio: insieme da trent’anni, nozze d’oro, innamorati fin da ragazzini, sempre insieme. Nel dilagare dell’individualismo questi «vuoti» narrano condivisione, difficoltà superate reggendosi a vicenda, senso di protezione.
Tra vecchi sposi come tra fratelli, anche se ciascuno ha una sua nuova famiglia che non cancella quella delle origini. Per il maggiore spesso il «vuoto» del minore accende un intrico d’ingiustizia, devastazione d’ogni logica, sconfitta di un intimo dovere di difendere. Hanno cantato l’amore fraterno molti artisti, da Tiziano Ferro a Jovanotti. E Jovanotti l’ha fatto, in «Fango», dopo l’addio a Umberto, morto il 6 dicembre 2007 in un incidente aereo. «L’unico pericolo che sento veramente / è quello di non riuscire più a sentire niente», dice, ma la visione s’allarga: «Io lo so che non sono solo / anche quando sono solo».
C’è un romanzo del 1941 che sviscera la profondità del legame fraterno. È «Ritorneranno», di Giani Stuparich: di tre fratelli, triestini irrendentisti, in trincea contro gli austriaci nella prima guerra mondiale, soltanto uno tornerà vivo e cieco, ma soprattutto amputato nel cuore. Il fratello minore di Giani, Carlo, morì in quella guerra e Stuparich gli dedicò un altro libro, «Colloqui con mio fratello» appunto, che Italo Svevo definì «un tempio». Ed è un privato colloquio anche l’abbraccio del vuoto.