Corriere della Sera, 10 dicembre 2014
Al cinquecentesimo dalla morte, Milano celebre il Bramante, il maestro che girava l’Italia seminando la sua modernità con un linguaggio flessibile
Nato a Urbino, transitato per Milano e morto a Roma, Donato Bramante è uno dei grandi nomi del Rinascimento che, invece di tenere bottega fissa in una città – come quella del Verrocchio a Firenze, dove gli apprendisti si formavano e i migliori come Leonardo si mettevano in proprio – girava l’Italia seminando la modernità, chiamando intorno a sé di volta in volta aiuti del posto. Così fecero anche Donatello a Padova o Antonello da Messina a Venezia.
Non sappiamo quando e perché Bramante lasciò la raffinata corte del Duca di Urbino né perché scelse il viaggio verso Mantova, Bergamo e poi Milano dove, questo è sicuro, le ambizioni di legittimazione dinastica di un capitano di bande armate come Ludovico il Moro avevano bisogno di una «verniciatura artistica». A differenza di Leonardo, però, Bramante lavorò soprattutto per altre nobili famiglie milanesi, anche in contrasto con lo Sforza.
I suoi furono soprattutto incarichi di supervisione che diedero vita a un lessico di compromesso con lo stile più conservatore delle maestranze locali e con il gusto dei committenti ancora legato al tardo gotico, alle cesellature della decorazione, agli effetti di ornamento a cui anche il Filarete si era dovuto assoggettare.
Certo, dopo il passaggio di Bramante, a Milano tramontarono definitivamente i soffitti dipinti di stelle, gli ori, gli archi spezzati, le foglie d’acanto, insomma tutto il più scontato repertorio gotico; e certo il Moro non si lasciò sfuggire la sua presenza. Anzi. Gli conferì l’importante incarico di ingegnere ducale e lo consultò, al pari di Leonardo, sulla discussione dei cantieri più prestigiosi come il tiburio del duomo di Milano, il castello di Vigevano, il duomo di Pavia o i chiostri di sant’Ambrogio.
Ma a differenza del genio da Vinci che realizzò a Milano la sua opera manifesto, ossia l’Ultima Cena nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, Bramante (che all’estremità della navata gotica della stessa chiesa innestava l’enorme tribuna a pianta centrale), lasciò il suo segno a Roma. Se al Nord il suo passaggio servì a fecondare il cambiamento, a Roma fu funzionale alle ben più monumentali ambizioni di Giulio II. Egli, scrive Henri Focillon, «incarnò la grandezza di questo pontificato nella sua stabilità. Ne sottometteva le aspirazioni al compasso e alla riga, attribuiva loro proporzioni, volume, peso».
Non a caso fu probabilmente Bramante a suggerire all’orecchio di quel pontefice che intendeva far risorgere la grandezza imperiale di Roma, il nome di un giovane di cui ancora si sentiva parlare poco: Raffaello, un altro urbinate che presterà i suoi servizi allo stesso disegno di gloria.
Per Leonardo, invece, che pure aveva lavorato gomito a gomito a Milano con Bramante fino forse al 1499 e che godeva di indiscussa fama, non ci fu alcun ruolo da giocare a Roma: era un artista troppo lento, troppo speculativo e astratto per il papa guerriero.
Il genio di Vinci scese a Roma nel 1513, ma rimase disoccupato e in disparte nella villa del Belvedere. Bramante e Raffaello, all’opposto, macinavano lavoro: entrambi possedevano il dono di saper adattare il loro linguaggio ai diversi contesti della committenza.
Bramante dimostra di sapersi evolvere passando da una città all’altra e da maestro quattrocentesco finisce per diventare un artefice del tardo Rinascimento, esattamente come Raffaello da alfiere della classicità muterà nel primo dei manieristi.
L’architettura bramantesca che a Milano era ancora «da pittore», simile a una scenografia prospettica, diventerà a Roma un approccio organico e monumentale allo spazio cui si atterrà ancora quarant’anni dopo Michelangelo il quale, riprendendo la costruzione di San Pietro iniziata da Bramante dirà: «Chiunque s’è discostato da detto ordine di Bramante, come à fatto il Sangallo, s’è discostato dalla verità».
Vano fu il libello denigratorio intitolato «La scimmia» dove si faceva dichiarare al Bramante che aveva intenzione di abbattere il vecchio paradiso per costruirne uno più bello e che se la sua architettura non piaceva a san Pietro, si sarebbe rivolto a Plutone. Bramante era un architetto di successo perché aveva una personalità forte e concreta.
È seguendo la fascinazione per le sue idee suscitata al Nord in tutte le arti – dalla pittura ai piccoli altaroli per la devozione privata – fino alla scelta di chiamare Raffaello a Roma, che si capisce il senso del viaggio bramantesco lungo la Penisola, perfettamente sintetizzato da Focillon: «Era uno di quegli uomini che inducono spontaneamente il prossimo a conoscersi meglio e ad accedere senza sforzo ad un livello più alto».