Corriere della Sera, 10 dicembre 2014
Il sogno cinese di Xi non ha niente a che vedere con quello americano. Non è quello di trovare un buon lavoro per entrare nella classe media, acquistare una casa e godersi il benessere meritato. Il presidente mira all’affermazione dei diritti della nazione cinese basata sul rigetto degli ideali occidentali
In quale direzione è avviata quella che rappresenta la più dinamica e strutturata potenza emergente del pianeta, ma anche la più esposta al rischio di instabilità? Gli osservatori stranieri, in particolare occidentali, da molto tempo immaginavano che la crescita cinese avrebbe spinto il Paese sulla strada della liberalizzazione economica, da un lato, e della riforma politica dall’altro, e che questo processo avrebbe reso la Cina un Paese più affidabile, paladino della stabilità mondiale e «azionista responsabile» sullo scacchiere politico internazionale.
È venuto il momento, invece, di accettare il fatto che la Cina rappresenterà la più grande economia globale ancor prima di intraprendere questa evoluzione in senso liberale. Anzi, proprio mentre il ruolo della Cina si fa sempre più importante per la stabilità economica mondiale, è lecito ipotizzare che la mano pesante dello Stato continuerà a creare difficoltà ancora a lungo per l’economia cinese, e la sua politica autoritaria farà aumentare malcontento e contestazioni.
È facile per gli occidentali equivocare i messaggi che oggi arrivano da Pechino. Quando Xi parla dell’importanza del «sogno cinese», non si riferisce affatto all’adozione da parte del Paese delle ben note aspirazioni americane, cioè quelle di trovarsi un buon lavoro, entrare a far parte della classe media, acquistare una casa e godersi il benessere raggiunto. Queste aspirazioni contano anche in Cina, ma il sogno di Xi si riferisce a una rinascita nazionale specificatamente cinese, l’affermazione dei diritti della nazione cinese basata sul rigetto degli ideali occidentali. Come a dire, la Cina ha una sua visione del futuro, che si incarnano in uno sviluppo gestito dallo Stato, un piano quinquennale dal volto umano.
Quando Xi parla della «rivoluzione energetica» cinese, non si riferisce all’innovazione e allo sviluppo delle tecnologie dietro la spinta del mercato, bensì alla ristrutturazione complessiva del settore dell’energia in tutto il Paese, concepita per salvaguardare il monopolio del potere politico, esercitato dal partito al governo, allo scopo di smorzare i malumori popolari per l’inquinamento dell’aria e dell’acqua e ridurre la dipendenza della Cina da risorse e strumenti di provenienza estera. Inoltre, il capitalismo di Stato in Cina gode di una salute di ferro, e prova ne è l’impegno del governo per riformare le imprese di Stato anziché privatizzarle. Le sette maggiori imprese statali al mondo (per capitalizzazione di mercato) sono cinesi. Lo scorso anno, le dieci principali società cinesi per fatturato, e circa 300 delle prime 500 in classifica, sono tutte statali. La crescita programmata dal governo ha dato impulso all’economia per molti anni, ma l’aspirazione a diventare un Paese moderno con una classe media diffusa un giorno costringerà i leader a far meno affidamento sui mastodonti di Stato e più sul potenziale creativo della popolazione, sempre più istruita ed evoluta.
La strada verso la liberalizzazione politica non sarà facile. Basta guardare a Hong Kong, dove la maggior parte della popolazione è notevolmente più ricca del cittadino cinese medio, e dove la classe media è fiorente e l’aria risulta relativamente poco inquinata. Ma gli abitanti di Hong Kong non sono riusciti a ottenere maggiori libertà. I mezzi di informazione locali sono sottoposti a censura e i cittadini non hanno il diritto di votare in elezioni libere, restando assoggettati a un sistema architettato per proteggere gli interessi dello Stato, non i diritti dell’individuo. È un governo imposto dalla legge, non il governo della legge.
Ma c’è qualcosa che cinesi e americani hanno in comune: i loro leader sono sempre pronti a dichiarare ai cittadini che la loro nazione è eccezionale, generando un senso di compiacenza e di privilegio nazionale che risulta specialmente pericoloso in un Paese emergente che dispone ancora di scarsissimi sbocchi per esprimere il pubblico malcontento, e dove il risentimento nazionale potrebbe essere incanalato in rivalità e ostilità con i Paesi confinanti. I rapporti con Taiwan, in particolar modo, potrebbero farsi burrascosi nel 2015. Per questo motivo, quando Xi Jinping parla del sogno cinese o della rivoluzione energetica della Cina, rivela di aver molto di più in comune con Putin, piuttosto che con gli altri leader mondiali, come Obama o Merkel, Abe (Giappone), Modi (India) o Rousseff (Brasile).
Per tutte queste ragioni, è ora che l’Occidente si rassegni alla realtà che la Cina accoglierà la liberalizzazione quando non avrà più alternative. Un giorno, la leadership si vedrà costretta a condividere il potere con il popolo, grazie al fermento di nuove idee che scaturiscono all’interno del Paese, e a quel punto le contraddizioni dell’economia cinese potrebbero sommarsi e portare al crollo del sistema oggi in vigore. Ma quel giorno è ancora lungi dal profilarsi all’orizzonte e anzi, nel 2015, l’economia cinese rivestirà un ruolo ancor più importante per la politica internazionale e per l’intera economia globale.
(Traduzione di Rita Baldassarre)