Corriere della Sera, 10 dicembre 2014
In dieci anni il marchio Italia è precipitato dal 1° al 18° posto nel turismo mondiale. Abbiamo una cattiva gestione politica, infrastrutture insoddisfacenti, una qualità della vita sempre più bassa, siamo intolleranti, poco tecnologici e il rapporto qualità/prezzo è pessimo. Un incubo...
Dallo scudetto alla zona retrocessione: come abbiamo potuto precipitare in soli dieci anni dal 1° al 18º posto come «marchio» turistico mondiale? L’ultima edizione del «Country Brand Index 2014-15», compilato in base ai giudizi di migliaia di opinion maker, la dice lunga sulla reputazione di cui godiamo. Restiamo primi per appeal : il sogno di un viaggio in Italia è ancora in cima ai pensieri di tutti. E primi per il fascino delle ricchezze culturali e paesaggistiche. E così per i nostri piatti e i nostri vini. Sul resto, però... Soprattutto sul rapporto prezzi/qualità. Eravamo al 28º posto: due anni e siamo precipitati al 57º. Un incubo.
«Nessun dorma», titola il capitolo dedicato al nostro Paese. Perché è da pazzi trascurare un settore come il turismo che sta vivendo il più grande boom mondiale di tutti i tempi e che potrebbe darci una formidabile spinta per cavarci dai guai. Invece, poco o niente. Rari accenni (10 citazioni su 46.059 parole) nello sblocca Italia, dove si parla dei «condhotel» o della necessità di «armonizzare» le offerte dei vari enti locali. Fine. Ma dov’è la piena consapevolezza di quanto il tema sia vitale per il nostro presente e il nostro futuro?
Dice il rapporto World Travel & Tourism Council che nel 2013 l’Italia ha ricavato dal turismo in senso stretto il 4,2% del Pil e compreso l’indotto il 10,3. La metà della promessa di troppi premier... Dice ancora che il turismo in senso stretto occupa 1.106.000 addetti (dieci volte più della chimica) e con l’indotto (compresi per capirci gli artigiani che fanno i gilè dei camerieri) 2.619.000, cioè un milione più degli addetti dell’industria metalmeccanica.
Bene: dice l’archivio dell’ Ansa che su 1.521 titoli con Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, non ce n’è uno associato alle parole turismo, turistico, turisti. Peggio ancora per Susanna Camusso: su 4.988 titoli, uno solo (uno!) associato al turismo. Per la Cgil ci sono solo i metalmeccanici, chimici, i pensionati... E il settore che impiega quasi il 14% degli occupati? Boh...
Una cecità insensata e collettiva che negli anni ha fatto disastri: dall’abolizione del ministero alle deleghe alle regioni chiamate ciascuna a giocar per conto proprio sul mercato mondiale, dai pasticci sull’Enit al sito italia.it per il quale furono stanziati 45 milioni di euro con risultati comici come le musiche dei filmati che raccontavano le regioni ai cinesi, in 19 casi su 20 di compositori stranieri. Soldi buttati. Col cesello finale di Matteo Renzi che due mesi fa ha chiesto ai ragazzi d’una startup palermitana: «Ce lo preparate voi un progetto gratuito sul turismo? Sarebbe una figata bestiale».
Secondo il premier, «ci manca una adeguata strategia e non sappiamo raccontare nel modo giusto il nostro prodotto. C’è bisogno di una grande campagna di comunicazione web, un’operazione di marketing in Rete per rilanciare il nostro turismo...». Giusto. Le classifiche «Brand Index», però, dimostrano inequivocabilmente che possiamo pure «raccontare» l’Italia con le parole più immaginifiche possibili, ma ciò non scioglierebbe i nodi fondamentali. Che sono altri.
Dicono quelle classifiche infatti che il «marchio» Italia è già conosciutissimo e primissimo per ciò di cui andiamo fieri: i tesori artistici, monumentali, paesaggistici. Ma, come spiega il dossier a noi dedicato, non possiamo più campare di rendita: tutte quelle cose «non sono più sufficienti a farci preferire ad altre destinazioni, specie perché il nostro rapporto qualità-prezzo è precipitato dal 28° al 57° posto, un tracollo!». Quasi trenta punti persi rispetto all’ultimo rapporto biennale.
Venezia resta Venezia, Roma resta a Roma e Capri resta Capri, ma i turisti stranieri non sono baccalà: non tornano, se si sentono bidonati. Peggio: scoraggiano gli amici e i parenti dal venire in un Paese stupendo ma che pretende di avere una sorta di diritto di imporre ai visitatori pedaggi ingiusti. Tanto più se, intorno, troppe cose sono insoddisfacenti.
«L’Italia perde posizioni proprio perché il suo percepito e anche il suo vissuto», spiega il rapporto Brand Index, «è quello di un Paese penalizzato da una cattiva gestione politica (24° posto), con un sistema valori che si va opacizzando sempre più (23° posto), poco attrattivo come destinazione per studi e investimenti (19° e 28°), con infrastrutture insoddisfacenti (23°), intolleranza (23°), scarsa tecnologia (29°) e una qualità della vita sempre più bassa (25°)».
L’ultimo dossier del World Economic Forum nel settore Travel & Tourism, come denuncia uno studio di Silvia Angeloni, ci rinfaccia per di più il modo in cui gestiamo le nostre ricchezze paesaggistiche: nella «sostenibilità ambientale» siamo cinquantatreesimi. Peggio ancora nell’indice «Applicazione delle norme ambientali», dove ci inabissiamo all’84º posto. Qualcuno pensa che sia furbo continuare ad aggiungere cemento e cemento da Taormina a Cortina, da Courmayeur a Santa Maria di Leuca? Ecco la risposta: i turisti internazionali ci dicono che quella roba lì non gli interessa. L’Italia che vogliono vedere è un’altra.
Fatto sta che, come dicevamo, nel primo Brand Index del 2005 il marchio Italia era primo assoluto. Nel 2007 quinto. Nel 2009 sesto. Nel 2011 decimo. Nel 2013 quindicesimo e nell’ultimo, 2014-2015, appunto, diciottesimo. Certo, rispetto al primo monitoraggio alcuni criteri sono stati cambiati. E l’insieme della «accoglienza» di un Paese, dall’igiene alla qualità dei prodotti locali, dalla sicurezza ai prezzi, è diventato più importante che non la ricchezza di tesori. Il tracollo segnala un problema: chiunque sia a Palazzo Chigi la nostra reputazione è a pezzi. Ma soprattutto il mondo del turismo ha preso atto che l’Italia non è impegnata, se non a chiacchiere, in un progetto di rilancio vero. Corposo. Decisivo. Capace di coinvolgere tutto il Paese.
Vogliamo fare qualche confronto fastidioso? Proviamo con la Gran Bretagna, che oggi viaggia con un Pil che cresce del 3% l’anno e ha i nostri stessi abitanti. Noi siamo al quinto e loro all’ottavo posto, staccati, tra i Paesi più visitati dai turisti internazionali, ma ci hanno quasi raggiunti per i ricavi: 40,6 miliardi di dollari contro i nostri 43,9. Qualche anno e ci pigliano.
Loro hanno 17 siti Unesco, noi il triplo (50 più due del Vaticano più un paio di patrimoni immateriali) per non dire delle Dolomiti, della costa Smeralda o della Riviera sorrentina, del cibo e dei vini dove non c’è confronto. E ti chiedi: com’è possibile che loro siano sei posti davanti a noi nel «marchio» e addirittura 24 posti (loro al 4°, noi al 28°) nella competitività turistica? Com’è possibile che, stando al dossier Wttc, il turismo con l’indotto pesi sul loro Pil per il 10,5%, cioè più che sul nostro o che abbiano nel turismo (sempre incluso l’indotto) oltre 4 milioni di addetti e cioè quasi un milione e mezzo più di noi?
Un piccolo dettaglio dice tutto: il nostro sito web ufficiale italia.it è in cinque lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco) e il loro visitbritain.com in dieci, il doppio, compresi il russo e il cinese. E vi risparmiamo altri confronti. Umilianti.
Ecco: non sarebbe il caso che nel Paese di Pompei, degli Uffizi, di Venezia, della Valle dei Templi e del Cenacolo leonardiano il turismo diventasse, finalmente, una grande questione nazionale?