Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2014
Che il fallimento dell’Abenomics sia da lezione alla Ue. Le politiche di stimolo, pur essendo necessarie nel breve periodo per sostenere la domanda, non possono risolvere carenze strutturali di lunga data e se l’Abenomics 2.0 non promuoverà una riforma strutturale profonda, non avrà miglior esito della versione precedente
Le politiche di stimolo, pur necessarie, non risolvono carenze strutturali
Le recenti decisioni politiche del premier giapponese Shinzo Abe – aumentare sensibilmente lo stimolo monetario, rinviare l’incremento dell’imposta sui consumi e convocare elezioni anticipate a metà dicembre – hanno riportato il Paese al centro di un animato dibattito politico. Il problema è semplice: come possono le economie avanzate, caratterizzate dall’invecchiamento demografico, rilanciare la crescita dopo una crisi finanziaria? La soluzione, invece, non lo è affatto.
È ormai chiaro che il primo ciclo di riforme promosse da Abe, conosciuto come Abenomics, non è riuscito a generare un’inflazione sostenuta. Le speranze di una ripresa stabile hanno ceduto il posto a due trimestri consecutivi di crescita negativa. La questione è se l’Abenomics 2.0 sarà in grado di rimettere l’economia giapponese sui binari di una ritrovata prosperità.
A mio avviso, i tre pilastri dell’Abenomics 1.0, le cosiddette “frecce”, erano sostanzialmente solidi: una politica monetaria senza vincoli per ripristinare l’inflazione, una politica fiscale di supporto e riforme strutturali per stimolare la crescita sul lungo periodo. Il punto è che, mentre la banca centrale, guidata da Haruhiko Kuroda, ha realizzato ciò che aveva promesso, le altre due “frecce” dell’Abenomics hanno notevolmente deluso le aspettative.
Non si sono visti progressi significativi in merito alle riforme sul fronte dell’offerta, in particolare sulla cruciale questione di come aumentare la forza lavoro. Con una popolazione che invecchia e tende a diminuire, il governo giapponese deve trovare modi per incoraggiare l’occupazione femminile, convincere i giapponesi più anziani ad andare in pensione il più tardi possibile e sviluppare politiche del lavoro più attente alle famiglie. Ma, soprattutto, il Giap pone deve creare un ambiente più accogliente per i lavoratori stranieri.
Sul fronte dell’immigrazione un po’ di movimento c’è stato. Preso dal panico per le scadenze legate alle Olimpiadi di Tokyo del 2020, il governo è riuscito ad autorizzare l’importazione di operai stranieri (anche se la decisione è dovuta passare al vaglio di una mezza dozzina di ministeri). Pur così, i progressi sono stati, nel complesso, lenti. Il Giappone ha un disperato bisogno di incrementare il numero di infermieri e assistenti agli anziani per rispondere all’invecchiamento della popolazione, ma la resistenza burocratica e politica all’immigrazione è fin troppo radicata.
La prima volta che ho chiesto ai miei amici accademici giapponesi cosa pensassero delle riforme sul fronte dell’offerta di Abe, mi hanno risposto: «Non ti preoccupare, sono in arrivo». Poi, trascorso un po’ di tempo, hanno cominciato a dire, «Non ti preoccupare, sono in arrivo, ma senza fretta». Di recente, il mantra è diventato «Non ti preoccupare, noi siamo sempre convinti che siano in arrivo». Si può solo sperare che questo sia vero. Senza riforme sistemiche, specialmente del mercato del lavoro, l’Abenomics non resterà in vigore ancora a lungo.
Anche la scelta tempistica dell’aprile 2014 per l’aumento dell’imposta sui consumi (dal 5% all’8%) è stata infelice. Per Abe non sarebbe stato facile rinviare l’intervento, dal momento che era stato deciso mediante un accordo politico ad ampio consenso prima del suo insediamento. Tuttavia, il governo avrebbe potuto optare per uno stimolo fiscale più aggressivo al fine di contrastare gli effetti a breve termine dell’aumento. Invece, due trimestri consecutivi di crescita negativa hanno avuto un effetto psicologico scoraggiante.
È vero, la crisi è in parte un’illusione: il boom precedente era stato alimentato dall’impegno delle famiglie giapponesi a sconfiggere la tassa concentrando nel periodo iniziale gli acquisti di beni di consumo durevoli, una sfumatura che sembra essere svanita dal dibattito pubblico. Ma il quadro complessivo resta: l’Abenomics non è ancora riuscita a ribaltare una mentalità deflazionistica.
Intendiamoci, lo smisurato debito pubblico e gli esigui fondi previdenziali del Giappone rappresentano un problema enorme, che solo un rude e temerario keynesiano consiglierebbe alle autorità di ignorare. Per il momento, i rischi sono teorici, con tassi di interesse sul debito pubblico a dieci anni inferiori allo 0,5%. Ma dire che il debito del Giappone è irrilevante è come dire che un hedge fund ad alta leva è completamente sicuro; i rischi saranno pure remoti, ma di certo non sono banali. Pensate a cosa accadrebbe se la Banca del Giappone riuscisse a convincere l’opinione pubblica che l’inflazione si attesterà su una media del 2%. I tassi di interesse a dieci anni resterebbero fissati allo 0,5%?
E se altri fattori – ad esempio, un brusco calo della crescita dei mercati emergenti – determinassero un forte aumento dei tassi di interesse reali a livello globale, o un aumento dei premi di rischio sul debito giapponese? In linea di principio, il Giappone potrebbe resistere a tali shock senza un’inflazione elevata o altre misure estreme, ma è una follia negare la vulnerabilità del paese. Un hedge fund può semplicemente andare fuori mercato, ma questa non è una soluzione praticabile per una grande nazione.
Una sostenibilità fiscale richiede, prima o poi, un aumento dell’imposta sui consumi, e ovviamente il Giappone non dovrebbe aspettare che gli investitori internazionali inizino a dubitare della sua determinazione prima di muoversi in tal senso. È una questione di tempistica e tattica, e posticipare il secondo aumento dell’imposta sui consumi sembra un buon compromesso tra l’ipotesi di spingere l’Abenomics a velocità di fuga e mantenere la credibilità sul lungo periodo.
Questo, però, rimanda a problemi più profondi. Le politiche della domanda non potranno, da sole, evitare altri due decenni perduti, e tanto meno garantirne due d’oro. Il calo demografico è uno dei fattori chiave che innescarono la crisi finanziaria giapponese nel 1992, nonché il prolungato malessere che ne seguì. Il Giappone è ancora un Paese ricco, ma nella classifica del reddito reale pro capite ha ormai perso svariate posizioni rispetto ad altre economie avanzate, tra cui il Regno Unito e, soprattutto, gli Stati Uniti.
L’esperienza del Giappone racchiude in sé importanti lezioni per l’Europa, la principale delle quali è che le politiche di stimolo, pur essendo necessarie nel breve periodo per sostenere la domanda, non possono risolvere carenze strutturali di lunga data. Se l’Abenomics 2.0 non promuoverà una riforma strutturale profonda, non avrà miglior esito della versione precedente.
(Traduzione di Federica Frasca)