Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2014
Tags : Mafia Capitale
«Siamo di fronte a un’applicazione pressoché standard del modello di associazione mafiosa, conforme ai più accreditati orientamenti della Corte di cassazione». A parlare è Costantino Visconti, docente di Diritto penale all’Università di Palermo e autore di un lungo saggio sul 416 bis. Visconti spiega come l’inchiesta della Procura di Roma sveli la forza intimidatrice della “mafia silente” ma per nulla assente
«Ci sono due livelli e in ambedue i livelli c’è l’intimidazione. C’è il livello del “Mondo di sotto” in cui il clima minaccioso e violento è più evidente. E c’è il Mondo di sopra in cui sono evidenti rapporti corruttivi ma non manca l’impiego dell’intimidazione quando è necessario. Premessa necessaria per far comprendere la portata di questa inchiesta ai fini di una valutazione sul 416 bis, ovvero sul reato di associazione mafiosa». A parlare è Costantino Visconti, docente di diritto penale all’Università di Palermo e autore recentemente di un lungo saggio sul tema pubblicato sulla rivista Diritto penale contemporaneo. «Sul piano socio-criminologico la novità risiede nel fatto che a mia memoria mai in un’inchiesta con così tanti indagati per mafia non ve ne siano neanche uno napoletano, calabrese o siciliano – spiega Visconti -. Mentre sul piano giuridico non parlerei di novità significative: piuttosto siamo di fronte a un’applicazione pressoché standard del modello di associazione mafiosa, conforme cioè ai più accreditati orientamenti della Corte di cassazione in materia».
Una interpretazione, quella della Corte di cassazione, che ovviamente ha un peso rilevante ai fini della valutazione degli atti in sede di merito. Cosa che è accaduta con riferimento alle inchieste e ai processi riguardanti l’insediamento di organizzazioni ’ndranghetiste al Nord: «Casi in cui – dice Visconti – si sono profilati due diversi orientamenti, uno più incline a dilatare l’altro a restringere l’ambito applicativo del reato di associazione mafiosa in aree del paese considerate storicamente “refrattarie” al radicamento mafioso, ossia da Napoli in su».
Secondo un approccio considerato meno restrittivo, il reato è applicabile anche a formazioni criminali che non hanno “esteriorizzato”, nel contesto ambientale ove operano, il metodo mafioso prescritto dal terzo comma dell’articolo 416 bis del codice penale: «In alcuni procedimenti torinesi e genovesi, ad esempio, l’accusa e parte della giurisprudenza ha ritenuto sufficiente l’accertamento di una capacità intimidatrice del sodalizio meramente potenziale, predicando la punibilità della cosiddetta “mafia silente”. La Cassazione, però, anche recentemente ha ribadito che occorre sempre e comunque dimostrare che il sodalizio disponga di una capacità “effettiva” di incutere timore e soggezione attorno a sé, che in altre parole i criminali si siano realmente avvalsi della forza di intimidazione che costruisce il connotato tipizzante del reato associativo».
Ed è questo il punto: l’inchiesta romana ha queste caratteristiche Per Visconti «questa inchiesta sembra ispirata proprio da questo modello ricostruttivo più garantista del reato, laddove non trascura di fornire elementi di fatto idonei a tratteggiare la fisionomia di un’associazione impegnata a mantenere con gli interlocutori del “mondo di sotto” un clima minaccioso e violento, e con quelli del “mondo di sopra” rapporti corruttivi e di cointeressenza, salvo sempre l’impiego anche in quest’ultimo caso del metodo mafioso ove necessario».