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 2014  dicembre 09 Martedì calendario

I soldati italiani abbandonano l’Afghanistan nel silenzio generale. È stata la missione più sanguinosa del dopoguerra. Ma i risultati della lotta ai talebani non sono quelli sperati. E il governo evita ogni celebrazione

L’Afghanistan è la più lunga e sanguinosa missione di combattimento italiana del dopoguerra. Dal 2002 è costata 54 caduti ed oltre 200 feriti. Ieri a Kabul la Nato ha ammainato la bandiera della missione Isaf. «Un momento storico» l’ha definito il comandante americano John Campbell. E noi, che pure ce ne andiamo, lasciando un mini contingente per l’addestramento, voltiamo pagina in sordina. Ieri ad Herat, mentre calava il sipario sull’operazione oltremare più importante della Nato dalla sua nascita, non c’è stata nessuna cerimonia. «Non abbiamo fatto nulla. Per noi era una giornata come un’altra» ammettono dal contingente di 1300 uomini rimasti a Camp Arena, il quartiere generale italiano in tutti questi anni. «Penso che non verrà organizzato nulla in particolare per la riduzione delle truppe a fine anno – spiegano i militari – A dire il vero ad Herat neanche si parla della chiusura della missione».
L’ultima visita ufficiale del sottosegretario alla Difesa, Domenico Rossi, è avvenuta il 5 dicembre. Bastava rimandare di qualche giorno per farla coincidere con l’ammaina bandiera della Nato e dare un decoroso senso a 13 anni di intervento in armi.
La sordina al «momento storico» nasconde una volontà politica di chiudere il capitolo afghano evitando il solito infingimento della missione di pace. Il ponte dell’Immacolata e la strategia del governo hanno favorito un totale silenzio sull’ammaina bandiera a Kabul. Nella capitale, però, abbiamo il generale Vincenzo Santo, capo di stato maggiore della missione, in pratica numero due della Nato in Afghanistan.
L’opinione pubblica è ben felice di non sentire più parlare del disgraziato paese al crocevia dell’Asia. Questo non significa che possiamo dimenticare circa centomila uomini, che hanno fatto il proprio dovere nella parte occidentale del paese. In luoghi dai nomi esotici come Bala Murghab, Farah, Bakwa sono decine i giovani che hanno versato il loro sangue per dare una speranza agli afghani. Per non parlare dei due milioni di euro al giorno che abbiamo speso quando avevamo 4mila uomini e si sparava di continuo.
Non si tratta di suonare la fanfara, ma il governo dovrebbe spiegarci almeno se abbiamo vinto o perso. E invece passa tutto in sordina, per opportunità politica, compreso il mesto ritiro ed il cambio camaleontico di missione. Per non sbagliare siamo stati i primi a trasformarci ad ottobre in Comando per l’addestramento e sostegno alle forze afghane. Per questo in gennaio rimarranno 800 uomini ad Herat, fondamentalmente chiusi in base. A fine estate 2015 anticiperemo la chiusura anche di questa missione. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, voleva che ad Herat rimanessero in 500, ma non avrebbero garantito neppure la sicurezza di Camp Arena.
Il cittadino medio pensa che in Afghanistan non ci starà più nessuno o che ce ne siamo già andati tutti. E fa comodo che sia così. Altrimenti si rischia di aprire uno spinoso dibattito sui risultati del nostro intervento con i talebani più baldanzosi che mai. Da Roma confermano che non è prevista, al momento, alcuna celebrazione particolare per il rimpatrio di fine anno di una fetta del contingente. Forse la visita pre natalizia ad Herat di qualche pezzo grosso romperà un po’ il silenzio. Poi le ultime truppe italiane della missione Isaf torneranno a casa mestamente, anziché sfilare a testa alta sotto i riflettori, per ricordare a tutti 13 anni di sangue e sudore versati in Afghanistan.