la Repubblica, 9 dicembre 2014
«Il Giappone sta perdendo l’amore per i numeri. Ora regna solo l’utile. Eppure com’è bella l’algebra nei templi giapponesi». Parla il matematico Shigefumi Mori, Medaglia Fields 1990
Al Congresso Internazionale di Matematica dello scorso agosto a Seul, oltre all’assegnazione delle quattro medaglie Fields è anche stato eletto il nuovo presidente dell’Unione Matematica Internazionale, che guiderà i matematici fino al prossimo congresso di Rio de Janeiro del 2018. Il neoeletto è il giapponese Shigefumi Mori, primo asiatico a ricevere questo onore, e già vincitore della medaglia Fields nel 1990.
Ho conosciuto Mori (nato nel 1951 a Nagoya, in Giappone) molti anni fa in Italia, dov’è venuto qualche volta per i legami tra il suo lavoro, centrato principalmente sulla geometria algebrica, e quello dei geometri algebrici italiani. Ma l’ho incontrato recentemente al meeting di Heidelberg, poco dopo la sua elezione, approfittandone per parlare con lui della matematica nel suo paese.
Cosa ci può dire delle specificità della matematica giapponese?
«Il Giappone si è aperto all’Occidente verso il 1850, dopo una chiusura totale per più di due secoli: ufficialmente, tra il 1639 e il 1868. Da quel momento molta cultura occidentale è stata assorbita, molto velocemente, e la matematica non ha fatto eccezione. Si può dire che da quel momento non ci sia più stata una matematica tradizionale».
E prima cosa c’era stato, invece?
«Come in molte culture, si erano battute autonomamente alcune delle vie più naturali: ad esempio, in analisi erano state calcolate varie approssimazioni di pi greco, e in algebra si erano definiti i determinanti. Ma in matematica, così come in molti altri campi, il Giappone ha sempre subìto l’influenza culturale della Cina: sia direttamente, sia indirettamente attraverso la Corea».
Ci può spiegare, però, cosa sono i famosi Sangaku?
«Sono tavolette votive che i fedeli esponevano nei templi, e sulle quali scrivevano problemi di matematica: per chiederne le soluzioni, se non le conoscevano, e per annunciarle ed esibirle, se invece le avevano trovate».
Da noi si fa il contrario: in genere si mettono gli ex-voto quando si è già ottenuta la grazia.
«Quello si fa anche da noi. Ma non con i Sangaku, che hanno un aspetto più culturale che religioso, nel senso che i templi sono anche luoghi di ritrovo e di raduno, oltre che di preghiera. Direi che i Sangaku sono un analogo alle disfide matematiche che si facevano in Italia nel Cinquecento, dalle quali scaturì poi la formula risolutiva dell’equazione di terzo grado».
Qual è il ruolo della matematica nel Giappone moderno?
«È difficile dirlo. Il Rims (Istituto di Ricerca per le Scienze Matematiche) dell’Università di Kyoto, ad esempio, dove lavoro e che ho diretto, è stato creato nel 1963: in quel periodo il governo voleva promuovere la matematica in particolare, e le scienze in generale».
Com’è organizzato il sistema scolastico?
«In maniera piramidale e selettiva. Alle superiori la gerarchia è soprattutto locale, ma alle università diventa nazionale, e i migliori studenti vanno nelle migliori sedi: a partire da Tokyo e Kyoto, che sono le prime due in classifica, nell’ordine».
Lei dove ha studiato?
«A Kyoto, perché quello era il periodo della contestazione. Nel gennaio 1969 l’Università di Tokyo fu parzialmente occupata, la polizia attaccò gli studenti, e gli esami di ammissione di marzo furono sospesi per quell’anno».
E alla matematica, come c’è arrivato?
«È stata una scelta forzata, perché non ero in grado di fare nient’altro. Alle medie non valevo niente: mai che sia riuscito a entrare nei primi venti della scuola, ad esempio. Ma un giorno ci diedero un problema, e c’era un dolce in palio da spartire: per qualche motivo, fui l’unico a risolverlo, e vinsi l’intera torta. La portai a casa, ma poiché temevo che i miei genitori non ci avrebbero creduto, visti i miei precedenti, mi feci accompagnare dall’insegnante. Quell’episodio mi fece capire che forse era qualcosa che potevo fare. Alla fine delle superiori mi convinsi che effettivamente andavo bene, e mi iscrissi a matematica».
Come si è sviluppata la scuola giapponese di geometria algebrica, che ha vinto ben tre medaglie Fields?
«La prima fu Kunihiko Kodaira, nel 1954. Ma in realtà lo si può considerare un prodotto della scuola occidentale perché dopo aver studiato in Giappone, andò a Princeton nel 1949, e tornò in patria solo nel 1967. E lo stesso si può dire di Heisuke Hironaka, che vinse nel 1970. Dopo aver studiato in Giappone anche lui, prese il dottorato a Harvard nel 1960 e poi rimase negli Stati Uniti fino al 1992, anche se per qualche anno ebbe una cattedra a tempo parziale a Kyoto, prima di tornare definitivamente».
L’ha conosciuto bene?
«Oh, no: è più vecchio di me di dieci anni! Una volta è venuto a tenere una serie di lezioni a Kyoto. E un giorno è capitato che andassimo a cena nello stesso ristorante, per caso. Allora gli ho posto alcune domande, e lui mi ha risposto: molto interessante. Sono rimasto incantato».
Quindi in realtà non c’è nessuna scuola giapponese. Ma qual è la connessione con la scuola italiana di geometria algebrica?
«Non saprei. Naturalmente conosco i nomi di Guido Castelnuovo, Federigo Enriques e Francesco Severi, ma indirettamente, attraverso i lavori di Kodaira: in particolare, il cosiddetto “teorema di Enriques-Kodaira”. Ma soprattutto attraverso un corso che Michael Artin tenne in Giappone, quando venne in sabbatico: lui era stato allievo di Oscar Zariski, che aveva studiato in Italia negli anni Venti».
E qual è la situazione odierna in Giappone?
«Sono preoccupato per i giovani, perché il governo non sembra avere un gran interesse per la matematica. Ogni anno ci tagliano i fondi, con la scusa di finanziare altre ricerche “più competitive”: cioè ricerche che producono cose pratiche, applicabili sul breve periodo. In matematica questo è suicida, perché a volte le applicazioni arrivano nel giro di qualche secolo, quando non di qualche millennio».
Il suo nuovo ruolo di presidente dell’Unione Matematica Internazionale potrà aiutare?
«Se lo prendono seriamente, forse sì, e ne sarei felice. Anche se io non sono bravo a oliare le ruote dei politici, e dovrò imparare».
Governo a parte, come vede gli studenti?
«La popolazione giapponese sta diminuendo, e questo significa in particolare che c’è meno competizione. E senza competizione, è difficile raggiungere risultati importanti. Troppa competizione può forse essere eccessiva, ma nessuna competizione è sicuramente deleteria».