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 2014  dicembre 09 Martedì calendario

Zero in regia, 5 in mondanità, 6 per musica e voci e 9 all’organizzazione. La pagella della prima della Scala secondo Filippo Facci

Allora: sul palco reale c’erano un magistrato e un avvocato, in platea dominava la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, sul palcoscenico c’era un’opera tedesca con una cantante travestita da uomo che ha baciato una donna, nel golfo mistico un’orchestra  italiana suonava musica tedesca (con cantanti tedeschi in un teatro italiano) diretta da un ebreo argentino con passaporto tedesco ma di stanza a Milano, il tutto per la regia più straccionesca e poveraccista mai vista dal Sessantotto, un vero e scandaloso schifo, opera di un’inglese. I nomi: Pietro Grasso, Giuliano Pisapia, Christine Lagarde, Fidelio, Daniel Berenboim, Deborah Warmer. Questa è stata la Prima della Scala anno 2014. Serve altro? Forse sì. 0 IN REGIA
Tardiva e covata per mezzo secolo, la vera rivoluzione andrebbe fatta contro di loro, i registi come Deborah Warmer in accoppiata con la sua scenografa-costumista, questa specie di Rosi Bindi della regia – basta vederla – che viene strapagata per mettere in piedi l’allestimento più straccionesco e poveraccista mai visto da queste parti. Non siamo neanche al minimal o al dimesso: siamo agli scarti del low cost – in realtà costosissimo – e alla rinuncia di un’estetica del brutto a vantaggio di un brutto vero e squallido, inutile, cencioso: coi bidoni, il mocio per pulire, i panni stesi come nei Quartieri spagnoli, l’asse da stiro, i thermos. Un critico russo del tardo Ottocento l’avrebbe chiamata «scenografia puzzolente», con gli afrori che giungono in platea misti a odori di aglio e cipolla. Che poi la vera domanda è: ma quella plebe colorata da periferia metropolitana e degradata, semplicemente, che c’entrava? Non era certo una metafora del disagio reale che uccide il ceto medio: sembrava, semmai, una rivendicazione culturale dello straccionismo da centro sociale inteso non come rifugio ma come modello estetico e culturale: roba vecchia di 45 anni ma che si ritrova anche nel disadorno-chic che la Warmer adotta nel vestirsi.
Lo stile fabbriche occupate o dismesse, la sporcizia, un tagliere Ikea dipinto di grigio come scrittoio, le tute da albanesi al semaforo: sarebbe la borghesia andalusa a cui ammiccava Beethoven. Chissà che ne direbbe lui. Noi stiamo qui a impazzire dietro a interpretazioni filologiche con strumenti originali eccetera: poi sputtaniamo tutto con le ansie attualizzanti ed escrementizie con cui i registi gareggiano tra loro, i loro vacui ed esibiti squallori, autentichi sfregi per le opere per com’erano state concepite. Nel secondo atto, un certo scenario, poteva anche capirsi: del resto l’ambientazione è un carcere. Ma nel quadro familiare del primo atto, che senso aveva? Poi c’erano i prigionieri che avanzavano sul palco come del Quarto Stato di Volpedo, queste cose: la Warmer è da cacciare a sassate, fine. In realtà l’hanno pensato in tanti: ma la gran massa dei parvenu – ignari del già-visto degli anni Settanta – ha fatto finta di niente. Ora si attende attualizzazione della partitura con sintetizzatore al posto degli archi, con campionature al posto delle voci: eh, mica vorremo proseguire in eterno con questa concezione museale dell’opera. Già che ci siamo: potremmo ridipingere i pomposi rossi piermariniani con colori fluo.
5 IN MONDANITÀ
La vera metamorfosi in realtà è già avvenuta negli anni scorsi, strascico dell’era Monti. Simbolo ne sono non i banchieri più noti come i Giovanni Bazoli o Federico Ghizzoni (Intesa e Unicredit) ma i centinaia di, come dire, derivati, certo più sobri ma musicalmente malmessi, disposti ad applaudire qualsiasi cosa pur di non sbagliare. Parola d’ordine: non farsi notare. Come stradetto, mancavano le tre istituzioni principali: Napolitano, Renzi e Marta Marzotto. Sul palco reale però c’erano, come pure detto, un magistrato e un avvocato: e vai di metafore. All’ingresso i fotografi scattavano a caso anche se non sapevano i nomi, eventualmente li avrebbero recuperati. A ringalluzzirli, finalmente, l’ingresso di Valeria Marini che sembrava una Real Doll in silicone. Inarrivabile, in altezza e bellezza, la modella Eva Riccobono, che purtroppo a un certo punto ha proferito parola. La presidente del Tribunale Livia Pomodoro, che un abbaglio del Corriere definiva vestita di bianco, in realtà era in tappezzeria marrone. Il sovrintendente Alexander Pereira, che l’italiano non l’ha ancora imparato, sfoggiava la sua moglie 26enne che ha impiegato cinque giorni per cucirsi un vestito praticamente da sposa. Il ministro Enrico Franceschini, pure lui sul palco reale, aveva la sua sperimentata aria da imbucato. Proseguire l’elenco significherebbe mettersi a parlare di Andrea Pirlo, dell’ex moglie di Roberto Calderoli, della nientologa Gabriella Magnoni Dompé (professione ex moglie) che sfoggiava un vestito grigio che in Kuwait avrebbero molto apprezzato.
6 PER MUSICA E VOCI
Daniel Barenboim saluta La Scala e va solo ringraziato, ne dovremo mangiare di panini per averne un altro così. Anche perché, di gente così, in giro non ce n’è più o quasi. Ora gli subentrerà Riccardo Chailly e sarà un’orgia di Verdi e di Puccini: potremo ricominciare a fingere di litigare sul belcanto all’italiana. Per quanto riguarda questo Fidelio di Beethoven, beh, ci asteniamo: pochi lo conoscono e amano veramente, i più tornano a casa solo con una gran voglia di riascoltare le Sinfonie. Barenboim è Barenboim, spesso traveste da scelte culturali delle scelte meramente estetiche: rallenterebbe anche la marcia di Radezky, ma farlo nel finale del secondo atto ha rischiato di ritardare seriamente la crescita drammatica di tutta l’opera. Poco male. Ha scelto di aprire l’Opera con la magniloquente Ouverture Leonora n.2, che forse già rivelava troppo: infatti Beethoven l’aveva eliminata, ma non v’è dubbio che resti magnifica. Sul resto non abbiamo tempo e spazio per esercitarci: il Fidelio resta teatro cantato (singpiel) e non opera propriamente detta, è una mistura di canto e recitazione in cui i colpi di scena sono talvolta confinati al recitato: una bestemmia, per i belcantisti. Anche perché la mancanza di chiaroscuri e di prosodia del tedesco, dopo un po’, viene a noia.
Sui cantanti: onesti lavoratori. Leonora era Anja Kampe, niente di che, accettabile se non fosse che negli acuti faceva venire l’ansia e ogni volta temevi il peggio. Meglio come attrice. Pizarro, Falk Struckmann, stentoreo e potente in confronto agli altri, è piaciuto ad alcuni e per niente ad altri. Tutte le altre parti sono parse di un livello più che buono: almeno per un’opera che, diciamo così, da cantare non era l’Everest.
9 IN ORGANIZZAZIONE
Guarderemmo i paesi nordici dall’alto in basso, se questo Paese fosse organizzato e gestito come lo è La Scala di Milano. Il discorso riguarda in toto il personale scaligero – a parte qualche orchestrale che dovrebbe fare le valigie – e in accoppiata il sin troppo poderoso cordone sanitario che cingeva la Prima. Mai visti tanti poliziotti (professionali, mai sbracati, mai fuori posto: da 700 a 800 unità) in una piazza mai così vuota, come infreddolita anche in assenza di freddo. Nella Prima delle assenze, sono mancati anche i centri sociali: quelli di Milano Nord hanno tradito. I superstiti in compenso hanno avuto la meglio sui pochi manifestanti veri – cioè gli sfrattati, i disoccupati, i cassintegrati – e hanno fatto un casino d’ufficio e che è stato il più mesto e rituale di sempre. A indossare caschi e fazzoletti saranno stati in 150, affezionati presenzialisti più di Natalia Aspesi: un primo timido tentativo di sfondamento alle 16.40 (una cinquantina di antagonisti del centro sociale Cantiere che tentavano di entrare da via Santa Margherita) e un secondo tentativo alle 17.20 da via Case Rotte: una molotov sequestrata, manganelli più che altro esibiti, dei bengala, poche uova, poco tutto. Bilancio. un paio di contusi e un agente con sospetta frattura a una gamba. Poi, alle 18 e 30, tutti a casa: almeno chi, tra i manifestanti, ne aveva ancora una.