Corriere della Sera, 9 dicembre 2014
Manager e operai pronti a rilevare la Ideal Standard, ma i fondi Bain e Anchorage ci ripensano
A Orcenico, in provincia di Pordenone, la finanza senza volto e gli operai in carne e ossa non sono figure retoriche. Sono i due corni di un rebus che si chiama Ideal Standard, l’azienda di ceramica sanitaria che dava lavoro a 400 persone (ora in mobilità) e che da mesi è sull’orlo della chiusura per obiettive difficoltà di mercato e per marchiani errori nella conduzione. La proprietà, secondo le frammentarie notizie che si hanno, dovrebbe essere in condominio tra un fondo americano, il Bain Capital e uno australiano, l’Anchorage, che si è ritrovato le azioni suo malgrado dopo aver sottoscritto un bond mai rimborsato. In Friuli in rappresentanza dei padroni-ombra si materializzano regolarmente solo due manager italiani, Domenico Antetomaso e Benedetto Gelsomino, che ormai arrivano in paese scortati dalla polizia. Guidano l’azienda da circa 5 anni ma sono considerati responsabili degli errori di conduzione, non hanno mostrato nessuna autonomia decisionale e sono stati già etichettati dai sindacalisti come «i due droni».
Quale che sia la verità sugli assetti proprietari e la reale catena decisionale i manager stanno impedendo che dalla crisi se ne esca con un worker buy out come è accaduto con successo in tante altre aziende italiane. A rilevare l’azienda e ad accollarsi tutti i rischi sarebbero i lavoratori devolvendo la loro buonuscita e usufruendo dell’aiuto finanziario combinato della Coopfond e del fondo rotativo del ministero dello Sviluppo economico. La cooperativa ha intenzione di vendere vasche e lavabi ripescando un vecchio marchio (Ceramiche Senesi) e soprattutto dandosi un business plan più moderno, una distribuzione del prodotti più oculata, una strategia di marketing sensata e comunque accompagnando le scelte di posizionamento commerciale con un programma di lacrime e sangue. Secondo il piano di reindustrializzazione inizialmente sarebbero riassunti – con paghe decurtate solo 50 dipendenti che poi diventerebbero 150 nel giro di due anni. Il tentativo degli operai Ideal Scala – il nome della nuova società – è appoggiato e seguito giorno per giorno dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dalla Unione Industriali di Pordenone senonchè, dopo aver sottoscritto una montagna di accordi e aver strappato fino a pochi mesi fa l’uso di ammortizzatori sociali, i due manager hanno compiuto un’improvvisa svolta a 360 gradi.
Le intese prevedevano che la proprietà uscisse dalla partita rinunciando agli impianti, agli stampi e al capannone necessari per la ripartenza ma con un dietrofront, di cui non si sono ancora capite le vere motivazioni, Antetomaso e Gelsomino hanno prima iniziato a frenare e successivamente hanno chiesto maggiori informazioni sul business plan della cooperativa fino a pretendere di averne una copia. Da trasmettere evidentemente ai padroni. Non contenti hanno anche avanzato la richiesta che la cooperativa paghi il macchinario a valore di libro ovvero sborsi 13 milioni di euro, una cifra giudicata incongrua. La retromarcia ha indispettito le autorità locali e ovviamente i sindacati che stanno picchettando giorno e notte i cancelli per evitare che venga portato via alcunché ma per non passare dalla ragione al torto i responsabili della cooperativa hanno deciso di ottemperare alla richiesta (inusuale) e consegnare così il business plan. Unica e ovvia contro-richiesta: la sottoscrizione di un protocollo di confidenzialità e riservatezza. I manager italiani, che evidentemente hanno l’unico obiettivo di impedire la nascita della nuova iniziativa, hanno preso ancora tempo incuranti delle reazioni della Regione e di Cgil-Cisl-Uil. Spiega Arturo Pellizzon, segretario provinciale della Cisl: «Il territorio sta dando una grande lezione di maturità e gli operai sono pronti a fare grossi sacrifici pur di salvare una tradizione industriale. Di contro ci troviamo una multinazionale irresponsabile e che evidentemente vuole impedire il nuovo ma non per questo ci arrenderemo».