la Repubblica, 9 dicembre 2014
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Gianni Alemanno si difende: «Ho scelto le persone sbagliate. L’errore è stato fidarmi dei miei collaboratori. Carminati? Pensavo fosse morto. Mai avuto un conto segreto all’estero. Mai portato soldi in Argentina»
Maglione a girocollo, occhi incavati, mani che vanno su e giù, giù e su, alla ricerca di un appiglio per non affogare. Nell’ordinanza di custodia cautelare sul “mondo di mezzo” Gianni Alemanno viene descritto come un gangster, socio della nuova mafia che ha messo radici a Roma, dedito ad aggiustare – insieme ai “camerati” portati in Campidoglio – appalti e bilanci pubblici in cambio di soldi. Che poi, chiacchierava la banda, lui «trasferiva in Argentina». Particolare smentito ieri dalla procura. L’unico sollievo di una settimana trascorsa a ripercorrere ogni minuto di quei maledetti 5 anni da sindaco. «Anni in cui nessuno ha mai provato ad avvertirmi: guarda che intorno a te stanno succedendo cose brutte. Neppure quando, in preda ai dubbi, andai da questore, prefetto e persino dal procuratore».
Forse non potevano, Alemanno, perché Lei era già indagato. Mai avuto conti segreti all’estero?
«Mai in vita mia. E anche la storia dell’Argentina, si capiva subito che era una colossale balla: io che vado fin laggiù con mio figlio e le valigie piene di mazzette... Assurdo».
In questi anni gli scandali l’hanno travolta, l’associazione mafiosa però le mancava.
«Di tutto mi si può accusare tranne che di questo, è troppo. Io non faccio parte del romanzo criminale, ne verrò fuori».
Questo lo decideranno i giudici, ma Lei, in cuor suo, si sente colpevole di qualcosa?
«Di aver sottovalutato l’importanza della squadra in un compito di governo così gravoso qual è fare il sindaco a Roma. Appena arrivato, mi sono subito buttato sulle emergenze, trascurando le nomine: ho sempre scelto le persone in corsa. Ho cambiato 4 capi di gabinetto e fatto vari rimpasti di giunta. Non ho capito che era fondamentale».
E dunque?
«Ho sbagliato i collaboratori. Ma è capitato pure a Veltroni con
Odevaine, che era il suo vice-capo di gabinetto».
Chi, fra loro, l’ha più delusa?
«Panzironi, ex ad di Ama. È quello che mi ha più sbalordito: viene dalla Dc, ha un percorso da moderato. E poi eravamo amici. Mi fidavo. Pensarlo implicato con Buzzi e Carminati mi fa impressione».
L’elenco però è lungo. Fra gli accusati pure il suo capo segreteria Lucarelli e Mancini, ex ad di Eur spa, che aveva rapporti strettissimi con il boss neofascista. Non basta dire “mi sono fidato”.
«Un anno e mezzo fa, dopo il primo articolo dell’ Espresso sui “4 re di Roma” tra cui Carminati, che io – ribadisco – non ho mai conosciuto, anzi pensavo fosse morto oppure in pensione, sono cominciate le allusioni. Allora chiesi ai miei collaboratori: ma voi avete contatti, ci parlate? Fu un coro di no».
E invece lo incontravano e ci facevano affari. È difficile pensare che Lei non ne sapesse niente, specie di Mancini, Avanguardista come Carminati e suo amico in gioventù.
«Mancini faceva parte di quelle persone che, provenienti da diversi ambiti della destra, alla fine degli anni ’90 avevano poi deciso di entrare in An e seguire quel percorso di legalità. Non potevo immaginare che il suo passato potesse condizionare il suo presente».
Passiamo a Buzzi, ras delle coop: Lei gli ha spalancato le porte del suo studio in Campidoglio, le avrà certo proposto qualche combine, sennò che ci veniva a fare?
«Mai parlato di affari, solo dei problemi che avevano tutte le cooperative sociali di tipo B come la sua. Buzzi, peraltro, come me ha incontrato pure Marino, era una persona recuperata alla legalità, il riferimento della Lega delle cooperative a Roma, molto accreditato nelle istituzioni: la sua storia comincia con Rutelli, prosegue con Veltroni e continua anche dopo».
Con Gramazio, per esempio, capogruppo del suo partito, che intascava tangenti per favorire la mafia.
«Con lui ho sempre avuto un rapporto di grande stima: Luca era ed è molto trasversale, cercava sempre l’accordo con il Pd, che era all’opposizione».
E lo trovava?
«Sulle delibere importanti sì».
Anche Lei ha incassato, però: 75mila euro da Buzzi per contributi elettorali.
«È tutto tracciato. Ed è un’altra dimostrazione che non ho alcun vincolo associativo: i soldi sono dichiarati e rendicontati. Le pare che mi sarei comportato così se fossi un boss della mafia? E poi la cifra in sé può sembrare grossa, ma è stata diluita in 3-4 cene, che Buzzi ha pagato anche a Marino e a Renzi. Quando noi dovevano raccogliere fondi chiamavano tutti: dagli industriali alla Lega delle Cooperative. Non si può cancellare il finanziamento pubblico ai partiti e poi stupirsi che gli imprenditori danno un contributo».
Buzzi parla pure di non meglio precisati “amici del Sud” che l’avrebbero aiutata nella campagna per le Europee. Affermazione equivoca, visti i legami della banda romana con ’ndrangheta e Cosa nostra.
«Non c’entra nulla. Buzzi un giorno viene da me e mi dice: “Noi non siamo più ideologici, dentro il nostro mondo ci sono anche persone di orientamento opposto, quindi se vuoi ti posso aiutare”. Ci teneva a dimostrare di non essere fazioso».
Forse voleva sdebitarsi per i favori ricevuti.
«Guardi questa storia di Buzzi riguarda appalti per decine di milioni in un bilancio del Campidoglio che è di 3,5 miliardi. Una goccia nel mare. Le opere pubbliche, l’urbanistica, i lavori pubblici non sono stati toccati da questa inchiesta».
La destra ha fallito come esperienza di governo?
«Abbiamo fatto tante cose, ma non eravamo preparati a governare Roma».