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 2014  dicembre 09 Martedì calendario

La deflazione non è un problema per i tedeschi. Non l’hanno mai conosciuta. Ma sulle loro spalle pesano ancora i fatti degli anni Venti, quando, durante la Repubblica di Weimar, la classe media era in rovina

Caro direttore,
il dibattito sulla Germania e sul suo ruolo nell’Unione è ormai diviso in due fazioni: da una parte, coloro che reputano l’inflessibilità tedesca la causa della recessione in Europa, dall’altra, chi indica nel modello teutonico un esempio da seguire. Ma la realtà è più complessa di questo schema manicheo e dovrebbe essere affrontata anche in una prospettiva storica oltre che economica.
I numeri dell’economia dei länder non sono così invidiabili come si pensa. Tenendo conto dell’inflazione, nel 2013 i tedeschi hanno guadagnato meno che nel 1999. In termini di Pil pro capite corretto per il potere d’acquisto – ha calcolato in uno studio Philippe Legrain, ex consigliere economico di Josè Barroso – la Germania è un po’ più ricca del Regno Unito, ma meno di tante altre economie avanzate, dall’Austria agli Stati Uniti; e rispetto a sei anni fa, è cresciuta del 3,6% (era il 5% nel 2013). Dal 2000 Berlino ha inseguito la crescita più che cavalcarla, anche perché pagava ancora i costi dell’unificazione e il cambio uno a uno col marco dell’Est. Fino al 2013 il suo Pil è infatti aumentato del 15%, appena l’1,1% all’anno: nella stessa misura della Francia, ma molto meno del Regno Unito (21%), degli Stati Uniti (25%) e perfino della Spagna (19%) e dell’Irlanda (30%). Col segno meno da tempo anche gli investimenti: sempre negli ultimi tredici anni, essi sono calati dal 22,3% al 17% del Pil, mentre quelli pubblici sono appena l’1,6% del Pil. Non va meglio la formazione professionale. Il Paese della Merkel spende il 5,7% del Pil in istruzione e formazione (meno di Londra e Parigi), tra i giovani ci sono meno laureati (29%) che in Grecia (34%) e i famosi mini-job, nati con la riforma del lavoro ai tempi del governo Schröder, hanno creato una nuova classe sociale sottopagata che guadagna meno di 9,54 euro all’ora, pari a due terzi del reddito medio nazionale.
Sul fronte finanziario, non si è badato invece a spese per sostenere le banche: lo Stato ci ha messo la bellezza di 250 miliardi di euro, un record per tutto l’Euroclub. Tutto si tiene in piedi grazie ad una volontà ferrea di mantenere il pareggio di bilancio dei conti pubblici e preservare l’exploit del settore manifatturiero, nonostante la bassa domanda e il calo dei prezzi. È un’economia solida ma saldamente legata alla tradizione quella tedesca. Il perché lo rintracciamo nella letteratura.
Fred Uhlman, nel libro Storia di un uomo, descrive alla perfezione lo stato d’animo in cui si trovano ancora molti suoi concittadini contemporanei, raccontando la Germania di Weimar nel periodo 1922-1923. «I negozi erano vuoti, l’inflazione alle stelle. Una settimana mio padre mi spediva un milione di marchi, con i quali (se ero fortunato) potevo comprarmi del cibo, che la settimana dopo erano dieci milioni, poi cento milioni, poi ancora mille milioni e alla fine migliaia di milioni o un miliardo, con il quale non compravo quasi nulla». La classe media – scrive ancora l’autore de L’amico ritrovato – era quasi tutta in rovina. «Se si usavano le banconote come carta da parati si risparmiava. Ho visto con i miei occhi una stanza interamente ricoperta di biglietti da un milione di marchi, che si usavano anche per accendere i sigari. Il castello di Elz era in vendita per 427 dollari (trattabili), si acquistava una fabbrica per 250.000 marchi, pagandola poi in seguito con del denaro che forse valeva cento volte meno. L’impressione di quegli anni d’inflazione è rimasta in me come una traccia indelebile. Ancora oggi, a tanti anni di distanza, ho paura di svegliarmi una mattina con una banconota da un milione di marchi in mano».
La deflazione – che la Bce vorrebbe combattere a colpi di acquisti di bond sovrani – non è un problema per i tedeschi, semplicemente perché non l’hanno mai conosciuta, mentre sulla pelle scottano ancora le stimmate dei fatti degli anni Venti, preludio all’ascesa del nazismo. In quest’ottica risulta più facile comprendere perché il governo Merkel e la Bundesbank siano così fortemente contrari ad ogni piano non convenzionale di politica economica comune. Questo non vuol dire che staremmo meglio in Europa senza il Paese dei länder. In quel deprecabile caso, la Germania si sentirebbe più libera di perseguire i suoi obiettivi economici. Averla nella moneta unica significa indurla a sentirsi parte di un tutto e aiutarla a superare i traumi della storia, ponendo soprattutto un argine ad una pericolosa disintegrazione dell’eurozona.