Corriere della Sera, 9 dicembre 2014
La differenza tra la «colonizzazione» (positiva) e il «colonialismo» (negativo, avente come obiettivo solo lo sfruttamento del Paese occupato)
Durante il suo recente viaggio di Stato in Algeria, il presidente Hollande si è scusato pubblicamente per i 162 anni di colonialismo imposti dalla Francia a quel Paese. I conservatori francesi l’hanno aspramente criticato, facendo notare che vi è un’importante differenza tra la «colonizzazione» (positiva) e il «colonialismo» (negativo, avente come obiettivo solo lo sfruttamento del Paese occupato). Secondo loro, la Francia ha sempre condotto, nell’ambito del suo impero coloniale, un’azione «colonizzatrice» che ha avuto solo dei riscontri positivi. Lei è d’accordo con queste tesi?
Franco Cosulich, Milano
Caro Cosulich,
Non esiste un solo colonialismo. Ne esistono almeno quattro che si sovrappongono e qualche volta si contraddicono. Il primo è legato al concetto di potenza. Nell’epoca degli Imperi coloniali uno Stato era considerato potente quando la sua bandiera sventolava su grandi territori, conquistati con il valore delle armi, e le sue navi solcavano gli Oceani. Non tutti gli uomini di Stato erano favorevoli all’espansione coloniale, ma anche il grande Bismarck, forse il leader politico più sapientemente realista dell’Ottocento, finì per cedere alla sirena coloniale dopo la fondazione del Secondo Reich tedesco.
Il secondo colonialismo ha una forte componente economica. Molte operazioni coloniali furono precedute da campagne di opinione che decantavano le ricchezze naturali delle terre lontane su cui i governi avevano messo gli occhi. Anche la Tripolitania e la Cirenaica, prima della conquista italiana, furono descritte come terre prospere da cui i colonizzatori avrebbero tratto grandi vantaggi. Ma prima del petrolio, come disse Gaetano Salvemini, la Libia era soltanto uno «scatolone di sabbia». In alcuni casi, invece, le ricchezze naturali esistevano e contribuirono ad arricchire le maggiori potenze coloniali.
Il terzo colonialismo era legato al concetto di «missione nazionale». La grandezza di uno Stato dipendeva anche dal modo in cui i suoi cittadini avrebbero portato con sé, attraverso il mondo, «il fardello dell’uomo bianco» come furono definiti, in una celebre poesia che Rudyard Kipling scrisse nel 1899, i principi della civiltà, i valori della fede cristiana, il futuro del progresso tecnico e scientifico. Non comprenderemo mai il fenomeno coloniale se non terremo conto del grande numero di uomini e di donne, nelle amministrazioni pubbliche e nelle associazioni private, che si dedicarono alle popolazioni indigene, soprattutto in Africa. Oggi ricordiamo principalmente le vessazioni, le angherie, la tratta degli schiavi, lo sfruttamento delle miniere e delle grandi piantagioni. Ma il nostro sguardo sarebbe parziale e incompleto se dimenticassimo gli insegnanti, i medici, gli educatori, i missionari.
Il quarto colonialismo, minoritario ma umanamente e storicamente alquanto interessante, è quello dei viaggiatori, degli esploratori, dei mercanti, degli avventurieri, dei mercenari, di Livingston e del Duca degli Abruzzi, di Bottego e Cecil Rhodes, del comandante Marchand e di Savorgnan di Brazzà. Il mondo ha bisogno anche di loro.
Un’ultima osservazione, caro Cosulich. Il colonialismo è stato quasi sempre razzista perché sottintendeva la convinzione che l’uomo nero fosse sempre inferiore all’uomo bianco. Ma forse occorrerà riconoscere che questo colonialismo poteva avere due volti, a seconda delle circostanze: quello della brutalità e dell’ingordigia o, in parecchi casi, quello della carità e dell’intelligenza.