il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2014
Gli operai sono in via d’estinzione? Il fenomeno è che il lavoro operaio e quello definito in passato “di impiegato” tendono a confluire in un unico percorso in cui le macchine fanno una parte del lavoro fisico (manuale) e una buona conoscenza dell’uso e dell’organizzazione di nuovi strumenti conta più della fatica delle mani e dell’impegno del corpo
Caro Furio Colombo,
seguendo sui giornali le cronache di convegni e seminari sul lavoro, leggo sempre più spesso due affermazioni. Una: “Le scuole addestrano i giovani per lavori che non esistono più e per problemi che non sono quelli di oggi”. Due: “Dobbiamo prepararci alla fabbrica con meno operai come unica valida alternativa agli operai senza fabbrica“. Gli operai sono dunque in via d’estinzione?
Ornella
La lettera (che cita il Corriere della Sera del 15 novembre) tocca un punto chiave della politica, delle leggi sul lavoro, dei sindacati e della realtà. Cominciamo dalla realtà, o almeno da una proposta di interpretare ciò che sta succedendo. Ci sono, secondo i punti di vista e le scelte politiche, due fatti nuovi. Uno è l’evoluzione del lavoro, l’altro è la diminuzione del lavoro (nel senso che lavorano le macchine). Si tratta in realtà di un unico grandioso fenomeno in cui la diversa interpretazione porta a risultati immensamente diversi. Il fenomeno è che il lavoro operaio e quello definito in passato “di impiegato” tendono a confluire in un unico percorso in cui le macchine fanno una parte del lavoro fisico (manuale) e una buona conoscenza dell’uso e dell’organizzazione di nuovi strumenti conta più della fatica delle mani e dell’impegno del corpo. Questo cambiamento avviene a scatti, avviene in modo diverso fra produzione e produzione e avviene con un ritmo temporale relativamente più lento della visione nevrotica del Jobs Act di Renzi, che da un lato ha copiato Thatcher e Reagan (il lavoro non conta, conta l’impresa e contano i soldi, dunque il vantaggio esclusivo dell’impresa) e pretende che tutto sia già accaduto. E, dall’altro, vuole allontanare i sindacati dal tavolo delle trattative in modo che tutto il nuovo sia stabilito alle condizioni esclusive del padrone. So benissimo che sto usando una parola (padrone) arcaica e apparentemente inadatta a questi tempi di evoluzione produttiva. Ma lo faccio su richiesta della nuova legge italiana, e di una classe proprietaria che profitta subito di una atmosfera thatcheriana e reaganiana per allargare il proprio dominio sul campo. Fin dal momento in cui Marchionne è apparso sugli spalti usando tutto il suo potere per dare la caccia senza tregua e senza quartiere a tre (tre) operai per “indisciplina sindacale” (denunciati come se avessero rubato all’azienda, non resistito a un nuovo regolamento), fin dal momento in cui la Cgil è stata cacciata dal tavolo delle trattative con il muto consenso degli altri sindacati, si è capito che il problema non era il graduale mutare del lavoro e il come agganciarlo a nuovi tipi di formazione. Il problema era decidere sul nuovo lavoro senza l’interferenza dei sindacati. Un autore importante in questo campo, Luciano Gallino, ha scritto (commentando la legge di Renzi che prevede contratti fabbrica per fabbrica e non più nazionali, col proposito di escludere i sindacati): “I nuovi contratti collocheranno molti lavoratori al di sotto della soglia della povertà relativa. Si può quindi stimare che il numero di ‘lavoratori poveri’ aumenterà in Italia in notevole misura”. (Repubblica, 18 novembre 2014). Dunque è vero: i lavoratori, che sono stati veri autori del Made in Italy al tempo dei contratti rispettati e dei sindacati in grado di negoziare, sono in via di estinzione per fare largo a una massa di sottopagati senza diritti. Giustamente, alla fine del suo articolo, Gallino si domanda dove, la “ripresa” e la “crescita” troveranno i consumatori che le imprese disperatamente cercano e che il Jobs Act si propone di eliminare.