il Giornale, 9 dicembre 2014
Chateaubriand e la superiorità morale, e soprattutto estetica, della religione cattolica
«Geniale» Un celebre ritratto dello scrittore, politico e diplomatico francese François-René de Chateaubriand (1768-1848). È considerato il fondatore del Romanticismo letterario francese. Scrisse «Génie du Christianisme» nel 1802
«Quattro contadini, preceduti dal parroco, trasportavano sulle spalle l’uomo dei campi alla tomba. Se qualche agricoltore incontrava il convoglio funebre nelle campagne, interrompeva il lavoro, si scopriva il capo e onorava con un segno di croce il compagno deceduto. Si vedeva da lontano quel rustico defunto viaggiare in mezzo ai biondi campi di grano forse da lui seminati. La bara, coperta da un drappo funebre, ondeggiava come un papavero nero al di sopra del grano dorato e dei fiori rossi e azzurri».
Génie du Christianisme (1802) di François-René de Chateaubriand (1768-1848) è questa cosa qui, la scrittura come pittura, la religione come memoria e consolazione. «La ragione non ha mai asciugato una lacrima» e «la filosofia può riempire pagine di parole magnifiche, ma dubitiamo che gli sfortunati vengano ad appendere i loro vestiti al suo tempio», come invece, trasformandoli in ex voto, facevano in chiesa i marinai scampati al naufragio.
A disagio nei panni del teologo, Chateaubriand era se stesso in quelli dello storico e del patriota, l’incarnazione quasi di una Francia ideale eppure reale che di generazione in generazione si perpetuava con il suo corteo di riti e di gesti, esempi e racconti, paesaggi e monumenti: qui un campanile e il fumo di un camino, lì una processione e una festa campestre, ovunque il mistero ovvero il fascino della vita. «Tutto è nascosto, tutto è ignoto nell’universo. Lo stesso uomo non è forse uno strano mistero? Da dove parte il lampo che noi chiamiamo esistenza e in quale notte si spegne?». E ancora: «I misteri del cuore sono come quelli dell’antico Egitto; il profano che cercava di scoprirli senza esservi iniziato dalla religione veniva immediatamente colpito a morte».
Nulla era più lontano da Chateaubriand del culto dell’ateo, lì dove «i dolori umani fanno fumare l’incenso, la Morte è il celebrante, l’altare una Bara e il Nulla la divinità». Tutto lo avvicinava al «bisogno del meraviglioso, di un avvenire, di speranze, perché l’uomo si sente fatto per l’immortalità». L’istinto della religione era per lui una delle prove più potenti della necessità di un culto: «Si è pronti a credere a tutto quando non si crede a nulla; si hanno degli indovini quando non si hanno più i profeti; si hanno sortilegi quando si rinuncia alle cerimonie religiose, e si aprono le spelonche degli stregoni quando si chiudono i templi del Signore».
È la potente bellezza dello stile a fare del Génie du christianisme un libro che supera la propria epoca e ora che Einaudi ne ripropone la lettura con una nuova, esemplare traduzione a cura di Mario Richter, autore anche di una puntuale introduzione (Genio del cristianesimo, pagg. 878, euro 90), il lettore ha a disposizione il libro vessillo del romanticismo del suo tempo e un’opera tanto più attuale quanto le «radici cristiane dell’Europa» offrono ai nostri giorni materia di discussione e di polemiche.
Giustamente Richter affianca al testo un apparato iconografico che da Girodet a Millet, Ingres, Courbet, da Turner a Friedrich a Dahl illustra visivamente l’impatto della prosa di Chateaubriand sulla sensibilità artistica ottocentesca, i paesaggi come rovine, i luoghi del tempo, la natura che si fa cultura o che celebra la propria alterità. «Se gli anni fanno macerie, la natura vi semina fiori; se scoperchiamo una tomba, la natura vi pone il nido di una colomba: incessantemente occupata a rigenerare, la natura circonda la morte delle più dolci illusioni della vita».
Compendio di straordinaria erudizione, opera d un talento che non ha paura di fare razzia in campo altrui perché «lo scrittore originale non è quello che non imita nessuno, bensì quello che nessuno può imitare», il Génie muove da un assunto tanto semplice quanto vincente: «Non provare l’eccellenza del cristianesimo per il fatto che proviene da Dio, ma che proviene da Dio per il fatto che esso è eccellente». Non è un’apologia che ha a che fare con i dogmi, i fondamenti, le verità della fede, ma con la «bellezza», anzi «le bellezze», ovvero i valori legati ai sensi, al gusto, ai sentimenti. Nutrito di cultura classica, Chateaubriand la mette al servizio di una vertiginosa, spesso faziosa, operazione di recupero di una superiorità non solo morale, ma anche estetica: «Il cristianesimo ci fa vedere ovunque la virtù e la sventura, mentre il politeismo è un culto di delitti e di prosperità. La nostra religione è la nostra storia: è per noi che tanti spettacoli tragici sono stati dati al mondo».
Nel commentare, con competenza e sensibilità, famosi passi omerici e virgiliani, destinati a essere raffrontati con analoghe situazioni di autori moderni e cristiani, Chateaubriand cerca di trovare, alla luce del cristianesimo, quella che Richter definisce «una complessa, anche se significativa, convivenza». Del resto, «in confronto agli antichi, i moderni sono in genere più colti, più delicati, più sottili, spesso anche più interessanti nelle loro composizioni, ma gli antichi sono più semplici, più nobili, più tragici, più ricchi e, soprattutto, più veri dei moderni. Hanno un gusto più sicuro, un’immaginazione più nobile; sanno lavorare soltanto l’insieme trascurando le decorazioni».
Concepito allo scadere del secolo dei Lumi, in contrapposizione con l’entusiasmo rivoluzionario che aveva cercato di cancellare la religione con la ragione, Genio del cristianesimo pone le basi, nota ancora Richter, «di un nuovo umanesimo, insieme cattolico e popolare, aperto alla sapientia cordis, capace di rendere efficace la potenza creatrice della parola. Pochi scrittori sono riusciti, come Chateaubriand, a raccontare lo straordinario impasto che trasforma effimeri monadi umane in un concentrato religioso e nazionale di tradizioni e di speranze. «Se ci fosse chiesto quali sono i forti affetti che ci tengono legati alla terra natia, faremmo fatica a rispondere. Forse è il sorriso di una madre, forse i giovani compagni d’infanzia; forse le circostanze più semplici e, se si vuole, le più banali: un cane che abbaiava di notte in campagna, un usignolo che tornava tutti gli anni nel frutteto, il nido della rondine sulla finestra, il campanile della chiesa che si vedeva al di sopra degli alberi, il tasso del cimitero, la tomba gotica. Ecco tutto. Ma questi modesti mezzi dimostrano ancor meglio la realtà di una Provvidenza, in quanto non potrebbero essere la fonte dell’amor patrio e delle grandi virtù che quell’amore fa nascere, qualora ciò non fosse stabilito da una volontà suprema».