9 dicembre 2014
Biografia di Mango (scritta per la sua morte)
Il Fatto Quotidiano,
C ’è qualcosa di brutalmente cinico e di particolarmente sadico nella scomparsa di Mango, e non è solo la giovane età (appena sessantenne). La sua è stata una carriera a volte sottotraccia, inseguendo una strada personale e mai scontata. Possibilmente poco battuta, e pazienza se negli anni gli spettatori erano un po’ scesi. Poi, in quello che sembrava un concerto come tanti, per giunta vicino casa e per beneficenza, la morte sul palco. Con lo spettacolo quasi finito.
Poco prima di attaccare una delle canzoni più note, “Oro”, che – per quei paradossi che ne hanno spesso lambito il percorso – è forse più famosa per essere stata il contrappunto di Gerry Scotti in uno spot che non per la sua bellezza. Mango, all’anagrafe Giuseppe Mango e alla Siae Pino Mango, si stava esibendo domenica sera al Pala Ercole di Matera. Nella sua Basilicata, non troppo distante dal luogo in cui era nato il 6 novembre 1954 (Lagonegro, Potenza). Era seduto davanti al piano. Stava per cantare “Oro”, che prima di essere scritta da Mogol si intitolava “Mama Woodoo” e aveva per testo le parole del fratello Armando. Mango ha detto “Scusate”, ha alzato il braccio e chiesto aiuto. È arrivato lo staff, lui si è accasciato e non ha più ripreso conoscenza. È morto prima di arrivare in ospedale. Infarto. Purtroppo, su Youtube, il video del suo malore non manca (anzi ha già tante visualizzazioni).
La notizia ha cominciato a circolare rapida e, come spesso capita, il cordoglio si è rivelato superiore a quella che in vita pareva essere la fama effettiva di Mango. Nel 2014 aveva inciso il suo 21esimo disco, “L’amore è invisibile”, interamente di cover come “Acchiappanuvole” del 2008. Pochi giorni fa era gravitato a RadioDue, ospite di Giovanni Veronesi e Massimo Cervelli a Non è un paese per giovani. Aveva scherzato, forse neanche troppo, sul fatto che questo tour lo stesse stancando. Aveva giocato sui dieci chili presi negli ultimi mesi e si era nuovamente divertito a sottolineare come l’idea di “rockstar” fosse puramente aleatoria: un luogo comune.
Mango ha realizzato canzoni molto belle e brani per nulla indimenticabili, ma non ha mai smarrito un’idea molto personale e mai tronfia di musica. È stato un artista molto mediterraneo e poco italiano. Tra i suoi artisti amati non c’erano quasi mai connazionali e, quando già cantava a 7 anni, sceglieva Aretha Franklin e Led Zeppelin. Ha vissuto l’apice del successo nella seconda metà degli Ottanta e nella prima dei Novanta, ma anche le sue opere più recenti raggiungevano il disco d’oro. Chi lo amava ha aspettato buone notizie, mai arrivate, dall’ospedale dopo il malore. Chi non l’ha mai amato granché gli ha però sempre riconosciuto il talento evidente, l’originalità apprezzabile e la vocalità rara. La sua cifra principale è stata la coerenza, garbata ma ostinata: il desiderio non barattabile di realizzare la musica che gli piaceva. Qualcuno l’ha chiamata “pop mediterraneo”, che è una definizione meno sbagliata di altre. Nel 1985 vinse a Sanremo il Premio della Critica Nuove Proposte con “Il viaggio”, l’anno successivo arrivò appena 15esimo tra i Big ma la canzone che eseguì (“Lei verrà”) non sarebbe stata dimenticata.
A inizio carriera, appena ventenne, c’era anche lui nella RCA dei fenomeni. Le prime a notarlo furono Patty Pravo e Mia Martini. Un’altra signora della musica, Mara Maionchi, amò un suo provino e lo volle alla Fonit. Lì conobbe Mogol, con cui avrebbe scritto “Oro” e non solo quella. Con Lucio Dalla ha realizzato “Bella d’estate”, con Franco Battiato ha duettato “La stagione dell’amore”. E poi Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Mietta, la partecipazione al brano Domani 21/04/2009 per il terremoto in Abruzzo, il sodalizio con Pasquale Panella e i tanti musicisti di fama internazionale felici di suonare per lui. Non pochi artisti eclettici sono stati eternati da “sole” tre o quattro canzoni: in realtà avevano molte più storie da dire, e spesso le hanno dette, ma non tutti erano disposti ad ascoltarli.
Mango si cimentava spesso con le canzoni altrui perché era un interprete sopraffino, lo dimostrò anche al Festival Gaber. Recentemente era stato preso in giro dal Terzo Segreto di Satira, che aveva scelto una sua canzone (La rondine) come colonna sonora “sbagliata” di una notte erotica. La musica è piena di artisti scomparsi sul palco, dal sassofonista Feiez (Elio e le Storie Tese) al trombettista Lee Morgan, dal cantante Judge Dread a Johnny “Guitar” Watson.
Gaetano Curreri, leader degli Stadio, è sopravvissuto a un ictus durante un concerto. E Ivan Graziani, che con Mango ha suonato spesso in privato, amava ripetere che “un chitarrista deve morire sul palco, davanti alla sua gente”. Mango lo ha fatto davvero. E adesso manca più di quanto tutti, lui per primo, avrebbero immaginato.
La Stampa
La morte, quando decide, non si guarda intorno e non bada alle convenienze. Ma con Pino Mango ha fatto un’eccezione, e per portarselo via ha scelto un momento fortemente simbolico, un concerto: ha aspettato con pazienza l’applauso per la celebrazione dei trent’anni di Oro, che nel 1984 gli aveva dato la prima fama, e gliela ha lasciata cantare con le sue belle preziosità vocali in bella vista, come purtroppo si evince dal video che sta girando in rete e del quale si farebbe graziosamente a meno. Gli ha poi lasciato il tempo di chiedere scusa, per quel malore che stava salendo e non avrebbe lasciato più tempo. Poi, tutto finito. Il tonfo, la corsa inutile all’ospedale, e da quel momento il tempo che si vuole per noi, per ragionare sull’assurdità di una fine simile, oppure al contrario discettare su un finale di partita giusto e che lo avrebbe fatto (compatibilmente) contento, uno come lui che della musica aveva fatto il centro della vita, e pazienza se l’oggi non era più d’oro puro come cantava invece quella sua canzone con il testo di Mogol.
Sono momenti magri per tutti, e come ogni cantautore di razza Mango soffriva l’ansia di lavorare il triplo per risultati modesti. Si era anzi appena confessato a Radio Due della troppa stanchezza, aveva parlato dei chili accumulati con i sessant’anni suonati appena un mese fa, e di quelle due ore per ogni concerto che sembravano non finire mai: anche perché lui dentro ci metteva tutta l’anima. Con la cura della discografica Mara Maionchi, che lo aveva scoperto, era diventato celebre e rispettato per la sua tecnica interpretativa. Un falsetto dolce, di petto, sapiente e non zuccheroso, che lo aveva portato molte volte a Sanremo, gli aveva regalato successi comeBella d’estate (testo di Dalla) o Lei verrà.
Trasportava le canzoni su territori non convenzionali. Guardava ai mondi che circondano come una corona a rovescio la nostra penisola, riempiva la gola di riferimenti alla vocalità araba e nordafricana, si faceva ponte fra le culture. Un militante della world music. Aveva anche scritto per altri colleghi, spesso con il fratello Armando: da Mia Martini alla Berté, che cantò la sua Re scandalizzando Sanremo con il pancione, da Patty Pravo a Mietta.
Era, Mango, una bella persona. Un uomo solare e modesto, che credeva più nella musica che nel successo. Non a caso la morte se l’è portato via poco lontano dalla sua casa di Lagonegro, a Policoro, in un concerto dedicato alle speranze di pace e integrazione razziale. L’ultimo album,L’amore è invisibile era uscito alla fine di maggio. Tre inediti e un’infilata di autentiche riscritture di pezzi celebri comeOne degli U2: «Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Bono», mi aveva detto proprio in occasione di quell’uscita. Nel disco ci sono i tamburi del figlio diciannovenne Filippo, le voci della figlia Angelina, 14 anni, e della moglie amore di una vita Laura Valente, a sua volte brava vocalist, già solista e voce femminile dei Matia Bazar subito dopo Antonella Ruggiero. Una famiglia tutta musicale, stanziata nel buen retiro della nativa Lagonegro, da ieri priva del suo motore.
Il Messaggero
Morire chiedendo scusa. Se ne andato così Mango, cantautore generoso, autore serio che, ai bagliori della popolarità, ha sempre preferito la concretezza del mestiere e i rischi dell’interprete che usa la propria voce con sensibilità e raffinatezza tecnica, ai limiti dello sperimentalismo. Se ne è andato all’improvviso, fulminato sul palco da un infarto, mentre cantava una delle sue canzoni più belle, Oro, e se ne è andato nella sua terra, a Policoro, in Basilicata senza avere il tempo di accorgersi che la sua vita stava volando via, lottando fino all’ultimo respiro per finire la sua canzone.
IL PERSONAGGIO
Si chiude così, drammaticamente a sessant’anni una storia esemplare di musicista che caparbiamente si è voluto tenere lontano dalle sabbie banali del mestiere. Un artista fuori dagli schemi abituali, un cantautore obliquo, dotato di una tecnica vocale raffinata, capace di arrampicarsi sulle note alte con il suo mezzo falsetto, ma mediata da una sensibilità terrena che gli impediva di perdersi in voli astratti e di rimanere ancorato al grande filone del rock (Peter Gabriel in testa) e della canzone d’autore, con un forte senso della ricchezza ritmica (amava i tempi anomali per la nostra tradizione, come il 5/4 o il 6/8) e della melodia, il legame solido con la black music e con robuste infiltrazioni etniche mediterranee e africane.
Quando sbarcò a Roma dalla sua Lagonegro, giusto quarant’anni fa, la musica respirava a pieni polmoni la stagione dei cantautori. E il ragazzo del sud finì dentro quella che era la fabbrica italiana del pop, la Rca di via Tiburtina, prodigioso luogo cancellato dalla memoria e dalle mappe con brutale senso della storia.
Si fece largo, non senza difficoltà, perché il talento era evidente, almeno quanto l’originalità. Il primo album, La mia ragazza è un gran caldo, passò inosservato ma tre pezzi furono scelti subito da grandi nomi popolari della canzone nazionale come Patty Pravo e Mia Martini. Ci vollero un bel po’ di anni di gavetta e di attese prima dell’occasione giusta. Successe proprio con Oro, la canzone che non è riuscito a cantare fino in fondo per l’ultima volta, uscita nell’84 con il testo firmato da Mogol.
A seguire arrivarono l’album Odissea con Lei verrà, poiAdesso con dentro Bella d’estate e il testo firmato da Lucio Dalla (350 mila copie vendute), Sirtaki del ’90 (mezzo milione di copie), realizzato con Mogol, e poiCome l’acqua del 92, in mezzo tante cose. Concerti, ma anche passaggi a Sanremo, sette in tutto (nell’85, vinse il Premio della Critica tra i giovani con Il viaggio) più la partecipazione indiretta come autore di Re, che Loredana Bertè cantò col pancione finto e il codazzo scandalistico di corredo. Ma è negli anni più recenti, quelli in cui il successo si ridimensiona, i dischi cominciano ad avere difficoltà perché non si vendono, che Mango dà il meglio come musicista, spingendo sul pedale della raffinatezza e della ricerca etnica, continuando a fare album di cui poter essere orgoglioso, continuando a incontrare il suo pubblico, realizzando, da ultimo, un cd uscito a maggio,L’amore è invisibile, in cui assieme a tre pezzi nuovi, mette insieme un po’ di canzoni che gli piacevano daHeroes di David Bowie a Fields of gold di Sting, a Una giornata uggiosa di Battisti. Era un modo, cantandole non come erano ma come le sentiva, per celebrare assieme i suoi 60 anni (compiuti un mese fa) e i quarant’anni di carriera. Una carriera cominciata, appunto, da quello sbarco romano e finita in una notte di dicembre. Nella morte c’è sempre qualcosa di vero, al di là del dramma. E se Mango, se ne è andato chiedendo scusa al suo pubblico, la verità è che nella sua vita la musica era proprio tutto.
Cinque canzoni che ce lo faranno ricordare per sempre
1. Oro (1984)
All’inizio degli Anni Ottanta il quasi trentenne Pino Mango decide di lasciar perdere con la musica. Vuole tornare a Lagonegro e pensa di riprendere a studiare sociologia. Se ne va da Milano, e sulla strada di casa, quasi letteralmente, riceve la telefonata che gli cambia la vita. Mara Maionchi, che lavora in Fonit Cetra, ha ascoltato un provino scritto con il fratello Armando («Mama Woodoo») e ci crede: coinvolge Mogol, che riscrive il testo, trova un titolo («Oro») e trasforma quel provino nel suo primo vero successo. «Per averti pagherei un milione anche più, anche l’ultima Marlboro darei...».
2. Lei verrà (1986)
Pino Mango firma con Alberto Salerno un successo da 150 mila copie che fissa alcune caratteristiche destinate a diventare sue tipiche: i toni alti che salgono su fino al falsetto, le ritmiche elettroniche su tempi lenti, passaggi armonici inusuali. Un classico degli Anni Ottanta italiani.
3. Bella d’estate (1987)
Come da titolo, la canzone dell’estate di quell’anno, firmata da Mango (musica) e Lucio Dalla (testo), scritta - parola di Dalla - in cinque minuti in studio e subito registrata. Esiste un video in cui la cantano insieme dal vivo ed è divertente vedere, forse per la prima e unica volta, Dalla in difficoltà nel raggiungere le note alte.
4. Nella mia città (1990)
Arrivano i Novanta e la canzone pop di Mango svolta verso i colori mediterranei. La città di cui si parla è quella di Mogol, che scrive il testo, ma le sonorità sono tutte di Mango, che al solito tempo rilassato e alle sonorità rarefatte aggiunge percussioni vere e non più elettroniche e un cantato meno virtuosistico e più maturo.
5. Mediterraneo (1992)
Ancora Mogol e ancora il Mediterraneo, che questa volta è al centro del suono e di un testo che oggi dà i brividi: «Quella lunga scia della gente in silenzio per via, che prega piano sotto il sole. Mediterraneo da soffrire, sotto il sole Mediterraneo per morire».
Piero Negri