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 2014  dicembre 09 Martedì calendario

Per Mario Monti «le regole dell’Ue sul deficit non sono più credibili. Violazioni e rinvii si susseguono, non si può continuare così. Acquisti di titoli di Stato da parte della Bce? Giusti, ma non saranno il rimedio di tutti i mali»

«Oggi si fa finta che le regole europee siano rispettate, ma non è così. Vi è una flessibilità che viene erogata discrezionalmente a seconda dei momenti e dei Paesi. Una migliore considerazione degli investimenti può aiutare anche a uscire da contraddizioni altrimenti destinate a minare la credibilità dell’Europa». Mario Monti di questi tempi non parla spesso in pubblico dei temi che dividono di più gli europei: disciplina o flessibilità, ostacoli alla ripresa, scelte della Bce. Ma quando parla, l’ex presidente del Consiglio non si nasconde dietro un dito. Su disciplina di bilancio e investimenti pubblici – e come trattare questi ultimi nel valutare il disavanzo – domani a Bruxelles presenterà con Sylvie Goulard un documento a un incontro del Consiglio per il futuro dell’Europa del Berggruen Institute che Monti stesso presiede.
Se le regole sono violate, la colpa è dei Paesi o delle regole stesse?
«In una comunità come la Ue o l’eurozona occorrono regole fatte rispettare dai più forti così come dai più deboli. Ma serve che le regole siano adeguate, abbiano un fondamento saldo e se ne possa imporre il rispetto a testa alta: senza contraddizioni con le esigenze dell’economia».
In Europa, in materia di finanza pubblica, oggi è così?
«In Europa ci piace pensare che le regole siano nel complesso rispettate, ma non credo si possa parlare di rispetto quando ci sono Paesi che anno dopo anno chiedono rinvii nel rispettare gli obiettivi e li ottengono senza difficoltà. Penso, quanto al Patto di stabilità, alla Francia e alla Germania nel 2003 e, negli ultimi anni, alla Spagna, di nuovo alla Francia, al Belgio. O ancora alla Germania oggi per i limiti agli squilibri macroeconomici eccessivi. E a tanti altri casi».
Cosa scatena violazioni tanto sistematiche?
«Quando la situazione economica si è fatta dura, per tutti o per qualcuno, si è sempre chiuso un occhio sulle regole facendogli perdere credibilità. Dopo la rottura di Francia e Germania sul Patto di stabilità nel 2003 sono occorsi molti anni e ulteriori regole, i cosidetti Six-Pack e Two-Pack, per ristabilire una certa credibilità. Oggi si sta assistendo di nuovo ad un’erosione di credibilità. Temo che determinerà reazioni incrociate, come si è visto con le recenti dichiarazioni del Cancelliere Merkel su Francia e Italia, precedute qualche settimana prima da una sorta di diffida del Presidente Renzi alla Commissione Ue a non permettersi di mettere in discussione le autonome scelte di bilancio della Francia. Tutto ciò non può non avere contraccolpi pericolosi sulla credibilità dell’arbitro: la Commissione, appunto».
Dunque metri e misure non sono uguali per tutti?
«Un conto è la discrezionalità, ragionata e motivata, di politiche economiche decise in comune. Un altro è quella che sembra riservata a singoli Paesi, di solito i più grandi. Di qui la reazione dura dei Paesi piccoli, il Portogallo ad esempio, che non hanno goduto della stessa flessibilità. Se vogliamo un arbitro rispettato, e che perciò può imporre l’osservanza delle regole anche ai più forti – come ad esempio è avvenuto spesso nei confronti della Germania in materia di concorrenza – non abbiamo interesse a dare quotidiani colpi di maglio alla Commissione, spesso per puri fini demagogici interni. Soprattutto non ne ha l’interesse un Paese come l’Italia, grande ma non molto forte. Penso insomma che abbia torto il Sud Europa quando vive le regole come un fastidio legalistico-notarile. Così come ha torto il Nord Europa a non vedere le fondate esigenze di crescita dei Paesi del Sud».
Come se ne esce?
«Basta migliorare alcune regole, in particolare considerando gli investimenti pubblici in modo più favorevole, sia pure a certe condizioni. In Europa abbiamo avuto politiche troppo orientate al breve termine. Ma finalmente si sta iniziando a guardare agli investimenti, non solo privati ma anche pubblici, come ponte fra il presente e il futuro. A considerare la capacità degli investimenti, sia pure finanziati in debito, di generare crescita e perciò di fare fronte agli oneri del debito. Come diceva Paolo Baffi, governatore di Bankitalia, è quando lo Stato si indebita per fare spesa corrente, non validi investimenti, che tradisce l’intenzione di risparmio delle famiglie».
Per arrivarci bisogna cambiare il Trattato come fu fatto per il Fiscal Compact?
«Ci sono già stati cambiamenti, e non si vede perché sarebbe impossibile farlo ancora. Ma potrebbe anche bastare un intervento sulla legislazione secondaria. Ciò che penso sia importante è uscire dalla situazione in cui si deve ricorrere alla flessibilità perché le regole non sono veramente difendibili. So che il concetto stesso di flessibilità oggi eccita, soprattutto in Italia, perché viene vista come un salvifico salto di qualità da quella che chiamano “tecnocrazia” a quella che chiamano “politica”. Ma nell’Europa del Nord la richiesta di flessibilità, quando viene da Paesi che non hanno fama di essere troppo dediti al rispetto delle regole, è vista come volontà sottrarsi alle regole».
Jean-Claude Juncker ha un piano per un fondo d’investimento con poche garanzie pubbliche e molti (presunti) fondi privati. Lei ci crede?
«Del piano del nuovo presidente della Commissione si può pensare ciò che si vuole, ma ad oggi è il maggior segnale politico di questo cambio culturale. Juncker stesso ha detto che i contributi dei Paesi al fondo per gli investimenti non rientreranno nel disavanzo».
Lei propose qualcosa del genere già nel ’97, e non passò: i tedeschi rifiutarono. Perché dovrebbero accettare adesso?
«La Germania per decenni ha avuto in Costituzione la regola aurea, la distinzione fra spesa corrente e spesa per investimenti. Poi è arrivata alle norme costituzionali di freno al debito, la Schuldenbremse, ma la Germania stessa cercò di far valere la regola aurea mentre si negoziava il Trattato di Maastricht nel ‘90-’91. E ora è il momento di parlare in Europa del significato economico del debito. Schuld in tedesco vuol dire tanto colpa che debito, d’accordo. Ma non ogni spesa pubblica finanziata con il debito è “colpevole”. In certi casi, come oggi con tassi di interesse molto bassi, può essere “colpevole” non preparare per le generazioni future infrastrutture materiali e immateriali adeguate».
Finora la sfiducia reciproca fra Paesi ha paralizzato qualunque progresso su questo tema, non trova?
«Di questo parleremo nel seminario di Bruxelles. È un tema che va affrontato ed è una sfiducia che dall’esistenza di regole non appropriate trae alimento. Si violano le norme con la giustificazione morale che se si applicassero l’economia sprofonderebbe in recessione. Per ricreare fiducia è importante che si faccia un discorso di verità a livello europeo e nei singoli stati membri. Certo che va bandita la tradizione italiana di un tempo, quando si contabilizzavano le coperture di perdite di imprese come investimenti».
Gli scandali dell’Expo, il Mose, i fondi alle municipalizzate di Roma li vedono tutti. Non trova difficile convincere l’Europa a darci via libera a “investire” ancora di più?
«È un tema importante. Problemi di corruzione esistono in ogni Paese. La Commissione potrebbe lanciare un’operazione sugli investimenti pubblici e un relativo codice di condotta. Ci sono già regole europee su appalti o concorrenza. Ora si può fare di più con iniziative comunitarie, per esempio comparando i tassi di corruzione come si fa già per l’evasione e aggiungendo una serie di misure di accompagnamento per combatterla».