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 2014  dicembre 09 Martedì calendario

Per combattere la corruzione serve un stato più leggero. Bisogna tagliare le partecipate e allargare il campo d’azione del Terzo settore

Ogni volta che viene alla luce una rete ramificata di corruzione ci si difende parlando di mele marce. Il sistema, si dice, è nel complesso sano. Ma c’e sempre l’eccezione. 
In un certo senso, ciò è vero. Sarebbe infatti ingeneroso pensare che l’intero Paese sia corrotto. E tuttavia, non si può non constatare (amaramente) che i fenomeni reticolari, se non sistemici, di corruzione sono tutt’altro che occasionali. Come conferma il XX rapporto di Transparency International, l’Italia è la nazione più corrotta d’Europa, sullo stesso gradino di Romania, Grecia e Bulgaria. 
Il nostro Paese è un tessuto di territori e corpi intermedi. Ciò crea una infrastruttura che moltiplica le posizioni di potere che si reggono su un consenso locale: dirigenti di partito, di associazioni di categoria, di sindacati, di banche e fondazioni, di università. La gran parte di questi soggetti vive – direttamente o indirettamente – gestendo o intermediando risorse pubbliche. In questo modo si predispone un reticolo fitto e articolato di soggetti che stanno a metà strada tra la gestione economica e la creazione del consenso. E di cui i partiti politici ovviamente, sono il cardine fondamentale. 
Nelle maglie di queste reti, coloro che occupano posizioni di responsabilità (di norma cooptati) sanno tante cose. Soprattutto sono perfettamente in grado di accorgersi delle anomalie (come nel caso della crescita accelerata della cooperativa 29 giugno di Roma, passata nel giro di pochi anni da 3 a 60 milioni di fatturato). Ma sanno anche che le posizioni che occupano, con i relativi vantaggi e privilegi, dipendono dal saper essere «discreti». Virtù necessitata dai legami di fedeltà e alleanza che, più del merito e della competenza, sono spesso alla base del potere di cui si dispone. Per questo, spesso chi sa tace, facendo finta di non vedere. Perché il costo della denuncia è la marginalizzazione, se non addirittura l’espulsione, dal gruppo dirigente. Che si mantiene grazie a questa acquiescenza. 
È in questo contesto omertoso che comportamenti irregolari, se non addirittura truffaldini, possono radicarsi e crescere. E dove sempre più spesso si insinua anche la malavita. 
Introdurre procedure, normative e controlli serve, ma solo fino ad un certo punto. 
Per sradicare queste degenerazioni occorre agire più in profondità, facendo quello che indicava Luigi Sturzo già 100 anni fa: diminuire drasticamente la quota di risorse intermediate dallo Stato. E non perché si debba diventare liberisti. Ma perché occorre spingere territori e corpi intermedi a essere più sobri e comunque ad assumersi in modo più esplicito e trasparente la responsabilità dell’uso delle risorse collettive. 
C’è modo di prendere di petto questo problema intervenendo su due temi di cui si parla da tempo. Prima di tutto eliminando la selva delle società partecipate: in questo modo non solo si eliminerebbe quel fitto sottobosco cresciuto in modo abnorme nel corso degli anni, ma si libererebbero anche notevoli risorse attorno a cui innescare processi di innovazione. Soprattutto se nel contempo si finalizzasse una nuova legge quadro per il terzo settore che ne ampli i campi d’azione, introducendo gli strumenti necessari per passare dalla cultura del «chi sei» a quella del «che fai».