il Giornale, 8 dicembre 2014
Cesare Romiti perla del Lingotto («Portarla all’estero? Un danno per l’Italia un affare per i soci»), dell’Euro («Uscirne avrebbe un costo pesantissimo, pari o superiore a quello dell’entrata»); Dell’Europa («quella unita che ancora non c’è), ma anche dei suoi errori (Rcs)
«Questa Italia ha bisogno di uno choc. Uno scossone che la faccia ripartire, che restituisca a tutti la voglia di costruire, di riprendere un percorso interrotto». Cesare Romiti ha compiuto 91 anni. Cammina con il bastone per i postumi di un incidente stradale, ma l’energia e la grinta sembrano quelli di un tempo, quando era uno dei simboli del capitalismo italiano e le Brigate Rosse volevano fargli la pelle. Due o tre volte la settimana fa la spola tra Roma, dove vive, e Milano, dove, da uno splendido ufficio appena dietro Mediobanca, guida la Fondazione Italia-Cina. Con lui c’è Margherita Barberis, storica assistente, la sua ombra dai tempi della Fiat, negli anni Settanta.
In attesa dello choc, l’economia non riprende e mai come oggi gli italiani sono preoccupati per il futuro.
«Di queste cose bisogna parlare con i trentenni. Ci sono loro in prima linea. Noi che abbiamo una certa età siamo sempre portati a fare dei confronti con il passato. E poi il momento economico è difficile per tutti, non solo per l’Italia».
I confronti però sono spesso utili.
«E allora le dico che quello che mi colpisce è la differenza psicologica tra l’Italia della mia generazione e quella di oggi. Noi uscivamo dalla guerra, non avevamo nulla ma l’orizzonte era nostro. Oggi le condizioni materiali sono di gran lunga migliori, ma manca la capacità di entusiasmarsi. Del resto penso che nessuno nato negli ultimi decenni possa aver impresso nella mente con la stessa forza cose che oggi sembrano banali. Io ricordo ancora l’emozione di quando mi arrivarono a casa il primo telefono, il primo frigorifero. O di quando mio padre mi regalò la prima bicicletta. Per forza di cose ora è tutto diverso».
Sull’Italia di oggi pesano, però scelte del passato, come quella dell’ingresso nell’euro. Lei, allora, fu tra i pochi nell’establishment economico a esprimere il suo scetticismo.
«A dir la verità il mio scetticismo riguardava non tanto l’euro in quanto tale, ma le modalità della sua adozione. Decidemmo di aderire dopo un vertice con la Spagna, quando loro ci dissero che sarebbero entrati e noi avemmo paura di rimanere esclusi. Penso che furono sbagliati i rapporti di cambio, che non tenevano conto del peso dei diversi Paesi. Ne parlai poi con Mario Draghi, oggi alla Bce e allora uno dei negoziatori come Direttore generale del Tesoro; mi disse che era il massimo che si era riusciti a ottenere dopo una trattativa durissima. Poi al momento dell’introduzione vera e propria eliminammo troppo presto il regime della doppia indicazione di prezzo. Il risultato è che i prezzi aumentarono e il potere d’acquisto delle famiglie si dimezzò».
E per rimediare agli errori di allora che cosa si può fare? Uscire dall’euro?
«Avrebbe un costo pesantissimo, pari o superiore a quello dell’entrata. A questo punto la strada è quella di creare davvero quell’Europa unita che ancora non c’è. Mettere insieme le politiche fiscali che, come dimostra il recente scandalo Juncker, vanno ancora per conto loro. Una moneta ha senso se dietro c’è un Paese. E questo Paese, questi Stati Uniti d’Europa vanno costruiti. Tenendo naturalmente conto di quello che è successo in Europa negli ultimi anni».
E cioè?
«Mi incuriosisce per esempio il fatto che a guidare la Germania, frutto di una fusione relativamente recente, siano due esponenti dell’ex Germania est, il presidente Gauck e la cancelliera Merkel. C’è da chiedersi se in qualche modo non siano portatori di una visione lontana da quella dei fondatori dell’Europa, una visione quasi prussiana vecchio stile. La tendenza alla supremazia si è spostata dal piano militare a quello economico. E non c’è dubbio che la Germania si muova con intelligenza in questa direzione. Lo dimostra l’abilità con cui occupa i posti di potere nelle strutture dell’Unione europea».
A contribuire al cattivo umore degli italiani c’è anche l’impoverimento dell’industria nazionale. C’è chi è in crisi o chi va all’estero. Come la sua Fiat.
«Io di Fiat cerco di non parlare. Dopo averci lavorato per 25 anni rischio di dire cose fuori luogo. Qui però il discorso è generale. Riguarda tutta l’industria e un settore, l’auto, che è fatto anche di indotto. La tendenza è quella di trasferirsi e di produrre dove ci sono le condizioni più favorevoli. Vale per tutti. E allo stesso tempo tutti i Paesi che schierano un’industria automobilistica nazionale, cercano di tenersela perché è importante averla. Per questo il trasferimento di Fiat ha un senso dal punto di vista degli azionisti, ma dal punto di vista del sistema Paese è un danno».
E intanto che questo accade l’Italia è bloccata. Il sistema politico non riesce a cambiare.
«Questo governo ha assunto il cambiamento come priorità. Ma i problemi sono enormi: corruzione, burocrazia, leggi disegnate in maniera incomprensibile. Il rischio di non portare a casa risultati è alto. Meglio forse concentrarsi su pochi obiettivi e condurli in porto. E anche questo potrebbe non bastare.
E allora?
«Allora ci vuole la scossa di cui parlavo. Prima di tutto dobbiamo recuperare l’orgoglio di essere italiani. Dobbiamo essere consapevoli che abbiamo ancora da insegnare al mondo. E io vedo, attraverso la Fondazione, l’interesse che per esempio i nostri interlocutori cinesi hanno per noi e per le nostre competenze. Certo, a volte si ha l’impressione che l’Italia si stia sfarinando, anche a livello fisico: alluvioni, frane, il degrado di scuole ed edifici pubblici. Ma proprio da qui dobbiamo ripartire. In Italia il tasso di risparmio è ancora alto. I talenti, anche quelli finiti a lavorare all’estero, sono una risorsa. Dobbiamo mobilitare le risorse di capitali e lavoro per ricostruire il Paese. E bisogna cominciare da iniziative a livello locale. È lì che l’Italia dà il meglio di sé. Ripartiamo dai comuni e dalle province. Anziché abolirle io avrei piuttosto abolito le Regioni. Quando vedo, a Roma o Milano, i palazzoni che si sono fatte costruire per le loro burocrazie, mi chiedo perché ripetiamo con le Regioni gli sbagli che abbiamo fatto a livello statale».
Lei è stato molto vicino a uno degli uomini che hanno inciso di più sull’economia italiana, Enrico Cuccia. Su di lui i giudizi divergono: c’è chi sostiene che ha ingabbiato la Penisola in un soffocante capitalismo di relazioni e chi invece ritiene che nessuno come lui abbia contribuito a far crescere l’anemica industria privata.
«Io dico che bisogna riportare il giudizio all’epoca in cui Cuccia ha operato. Siamo usciti dalla guerra e non avevamo nulla. Il nostro era un capitalismo ai minimi termini. Povero di mezzi e forse anche di qualità. Dopo qualche anno avevamo almeno sette o otto gruppi che figuravano ai primi posti delle classifiche mondiali. Oggi Cuccia non c’è più ma mi sembra che di società italiane rimaste ai vertici ne siano rimaste veramente poche».
Per quanto la riguarda, invece, lei stato per molti anni il deus ex machina del capitalismo all’italiana. Dei lei si parlò più volte anche per la presidenza di Confindustria.
«Fu l’avvocato Agnelli a sbarrarmi la strada. Tutte le volte che si faceva il mio nome, iniziava a fare pressione: dottor Romiti, che cosa va a fare a Roma, resti a lavorare con noi».
Almeno un paio di errori però le vengono attribuiti. Il primo è quello di aver favorito per la Fiat dei suoi tempi un percorso da conglomerata, in cui le risorse venivano sottratte al core business dell’auto, per essere impiegate in altri settori.
«Dalla sua fondazione la Fiat è sempre stata diversificata. E io ho sempre pensato che l’Auto con i suoi alti e bassi, potesse essere utilmente affiancata da altri comparti per compensare le crisi periodiche delle quattro ruote. Se è stato un errore lo rivendico».
Il secondo errore riguarda invece gli anni successivi all’uscita da Fiat. Lei si fece liquidare con una quota di Gemina, divenne presidente di Rcs e Impregilo. Ma la sua attività assunse subito un’impronta familistica che non era più adeguata ai tempi.
«Qui ha ragione, ho sbagliato. Volevo avviare un’attività imprenditoriale e cercai di costruire un piccolo gruppo diversificato, un po’ come la Fiat da cui ero uscito. Fu un errore che non rifarei. Oggi mi concentrerei al massimo su un settore puntando solo lì le mie carte».
Lei è ancora presidente onorario della Rizzoli-Corriere della Sera. Un segno della sua dichiarata passione per il giornalismo.
«Probabilmente sì. Credo me lo abbia trasmesso l’Avvocato Agnelli. Se non fosse stato il nipote del fondatore della Fiat avrebbe di sicuro fatto il giornalista o il diplomatico. E di giornalismo parlavamo spesso. È una questione di curiosità per il mondo. La stessa che mi mantiene al lavoro alla mia età».