La Stampa, 8 dicembre 2014
Una prima senza brividi. Nessuna star, nessun glamour e nessuna polemica. Fuori dal teatro però gli scontri, quelli veri con autonomi, cariche, lacrimogeni e feriti, non sono mancati. Come nei peggiori anni della nostra vita
Tredici minuti di applausi, dunque successo netto. Però, più che una Prima, questo Fidelio è stato un’ultima. È stato l’ultimo Sant’Ambroeus di Stéphane Lissner molto più che il primo di Alexander Pereira, per iniziare. Ed è stata l’ultima inaugurazione del direttore musicale uscente e già quasi uscito, Daniel Barenboim, festeggiatissimo all’inizio e alla fine. «Viva il maestro!», gli hanno urlato. E lui: «Speriamo».
Di certo, il suo è un Beethoven più tormentato che assertivo. Qualcuno, malignamente, ne ha approfittato per far notare che il più bell’elogio all’«amor coniugale» con quest’opera l’ha fatto uno come Ludwig van, che non si sposò mai. In ogni caso, il vero evo di Pereira si aprirà, finita questa stagione un po’ turistica a uso Expo, con la Giovanna d’Arco di Verdi che aprirà il ‘15-’16. Per i 7 Dicembre a venire, sono in ballottaggio Madama Butterfly eManon Lescaut, e magari una dopo l’altra, perché il futuro prossimo della Scala sarà comunque nel segno di Puccini.
È stata anche una prima «senza». Senza gli inevitabili imprevisti e le evitabilissime polemiche di ogni vigilia. Senza Giorgio Napolitano, che ormai alla Scala da Presidente non verrà più, ma che bisogna ringraziare per averlo fatto in questi anni. Senza Matteo Renzi, che ha capito che forse non è il momento di fare passerella. Senza perfino alcune delle immancabili. Per dire: non c’erano Valentina Cortese e Marta Marzotto, che è un po’ come se fosse sparita la statua di Verdi dal foyer. In compenso, c’è un albero di Natale voluto dal nuovo sovrintendente viennese, che fa molto Austria, Milano imperialregia, k.ü. k. teatro alla Scala. Infine, una Prima senza vere star, perché il cast era composto di buoni professionisti, non di divi, e comunque chapeau per essere sopravvissuti ai tempi di Barenboim.
Insomma, è stata una prima un po’ così, senza brividi, senza imprevisti, senza polemiche. L’unica, curiosamente, l’ha fatta proprio Barenboim appena sceso dal podio, ancora sudato ed emozionato e «molto molto molto felice». E l’ha fatta proprio sull’«italianità», che Pereira rivendica e il pubblico reclama come marchio di fabbrica della Scala: «L’italianità non è una questione né di geografia né di passaporto. È una questione di cultura, non di nascita. Altrimenti io che sono argentino dovrei dirigere solo il tango». Cultura da preservare: «Ha ragione Ricardo Muti: l’Italia, che era il Paese della musica, rischia di diventare il Paese della storia della musica».
Nel giorno dell’addio, tirar fuori qualche sassolino dalla scarpa ci sta. Gli scontri veri erano tutti fuori, con autonomi e cariche e lacrimogeni e feriti come nei peggiori anni della nostra vita. In teatro non se n’è accorto nessuno, anche perché non si è mai vista dai tempi di Capanna piazza Scala così blindata e così vuota. Arrivandoci, sembrava di entrare in un De Chirico dei più metafisici.
Così nel foyer, esaurito il cadaverico defilé dei soliti noti, tipo Museo Egizio botulinizzato, non restava che spettegolare del si naturale non proprio impeccabile con il quale Leonora, Anja Kampe, ha chiuso la sua aria. O, come di consueto, della regia, nel caso di Deborah Warner. Si tratta del tipico povero chic, quindi costosissimo (non sembra, ma è uno spettacolone), un po’ come i jeans stracciati ma carissimi dei grandi stilisti. Il carcere è un’industria dismessa dove il solito efferato regime rinchiude i prigionieri politici in attesa di far fare loro una brutta fine (la Siria di oggi? I Balcani di ieri? Il Cile dell’altro ieri?). Sembra un documentario, e molto realistico, esattamente come un documentario in presa diretta sulle freschissime malefatte giacobine era Fidelio per i contemporanei di Beethoven.
Probabilmente non tutti, anzi quasi nessuno dell’elegantissima platea se n’è accorto. Si è preferito accapigliarsi, ma anche qui con moderazione, sul mocio passato sul pavimento, sul bacio presunto «saffico» fra Leonora (travestita da Fidelio) e Marzellina e sui due bellissimi pastori tedeschi che sorvegliano i prigionieri. Sai che scandalo: non è certo la prima volta che dei cani salgono sul palcoscenico della Scala.
Stupidaggini da foyer a parte, rimane il fatto che l’inaugurazione della Scala è uno dei due avvenimenti musicali italiani che misteriosamente sembrano accompagnare e talvolta anticipare gli umori del Paese (l’altro, benché artisticamente non paragonabile, è il Festival di Sanremo). Ora, questa Prima un po’ grigia, perplessa, impaurita, di passaggio verso delle sorti che si sperano progressive ma si fatica a immaginare magnifiche, sembra davvero lo specchio dell’Italia. Una Prima come il Paese: di transizione verso non si sa bene cosa.
Nel frattempo, allora, tanto vale divertirsi. L’unico vero colpo di genio della serata l’hanno potuto apprezzare gli happy few della cena alla Società del Giardino. Lo chef Maurizio Riva ha proposto come dessert uno sformatino di panettone in una gabbia di caramello che, scrive l’Ansa, «richiama l’ambientazione carceraria dell’opera». E magari anche le ultime vicende italiane, chissà.