La Stampa, 8 dicembre 2014
Se l’America non sa salvare gli ostaggi. Washington continua a non trattare con i sequestratori e preferisce lanciare raid per liberare i connazionali anche quando la possibilità di successo è solo del 15%. attriti tra intelligence e governo e missioni complesse:ma cosa sbagliano gli Usa?
Attriti fra intelligence e amministrazione, complessità operative e la tendenza ad accettare alti rischi di insuccesso: sono i motivi dietro la sequenza di fallimenti che distingue i tentativi americani di ricorrere ai raid per liberare gli ostaggi. Nell’aprile 1980 l’operazione «Eagle Claw» non riesce a porre fine al sequestro dei 52 ostaggi detenuti nell’ambasciata Usa a Teheran perché Pentagono e Cia immaginano un piano disseminato di difficoltà che muore sul nascere quando tre degli otto elicotteri non riescono ad atterrare nel deserto di Yazd.
Lo smacco è tale da spingere il Pentagono a creare il Comando Congiunto per le Operazioni Speciali (Jsoc) per risolvere i problemi di coordinamento militari-intelligence. Sono truppe speciali che, dopo l’11 settembre 2001, colgono numerosi successi, decimando Al Qaeda fino al blitz di Abbottabad in cui viene eliminato Bin Laden. Ma i tentativi di liberare ostaggi continuano a fallire: nell’ottobre del 2010 Londra approva un blitz Usa per salvare la scozzese Linda Norgrove ma il raid si conclude con la sua morte così come nel febbraio 2011 l’assalto allo yacht SY Quest, catturato dai pirati somali, non porta al salvataggio dei rapiti.
L’ultimo tentativo riuscito risale al 2012, quando i Navy Seals liberano un americano in mano ai pirati. Sono sintomi di un vulnus operativo che diventa di dominio pubblico con il flop dell’«Independence Day» quando Delta Force manca la liberazione degli ostaggi in mano allo Stato Islamico (Isis). Il 4 luglio si svolge un’operazione complessa con jet, elicotteri e truppe: l’obiettivo è «Camp Bin Laden» nei pressi di Raqqa, in Siria, la capitale del Califfo. Ma quando le truppe arrivano lo trovano vuoto: James Foley e Steven Sotloff sono stati spostati e saranno decapitati nelle settimane seguenti. L’intelligence si difende affermando di aver dato per tempo «informazioni operative» ma il Pentagono si è mosso tardi e a Washington c’è chi sospetta che aspettare l’«Independence Day» sia stata una scelta politica, rivelatasi un boomerang.
L’ex ostaggio David Rohde, fuggito ai talebani saltando da una finestra, accusa Washington e Londra di «non trattare con i rapitori a differenza di quanto fanno altre capitali della Nato» e il «New York Times» rivela che Isis aveva recapitato richieste per Foley – 125 milioni di dollari e la liberazione di un pakistano detenuto in Texas – prima del blitz.
Entrambi contestano la politica della Casa Bianca di non trattare con i sequestratori. Robert Baer, veterano della Cia in Medio Oriente, ricorda che «Reagan negoziò con gli Hezbollah per gli ostaggi in Libano» negli Anni 80 per rimproverare a Obama di non fare altrettanto con Isis. Ma è il Segretario di Stato John Kerry a ribadire che «non abbiamo trattato nè tratteremo». Il riferimento è a Isis perché nel caso dei taleban l’America trova invece l’intesa per riavere il soldato Bowe Bergdahl, facendo uscire da Guantanamo cinque super-terroristi. Dopo la beffa di Raqqa, per il Pentagono l’occasione di rifarsi arriva il 25 novembre, con l’operazione per liberare Luke Somers ma, ancora una volta, non lo trovano. Il 6 dicembre il raid-bis identifica il luogo giusto ma non sorprende i sequestratori che feriscono a morte Somers. Il Comando delle Operazioni Speciali fa trapelare che aveva sottoposto il piano per il primo raid yemenita quando Somers era ancora nella grotta, ma altri ufficiali smentiscono.
Il duello nell’«intelligence community» è anche sui tempi del blitz a Raqqa. E ancora: fra i militari c’è chi imputa al presidente Obama di aver aspettato troppo perché il «Jsoc» disse di agire il 17 novembre ma avvenne solo 8 giorni dopo. La polemica investe Lisa Monaco, capo del controterrorismo, perché condusse più videoconferenze sul raid, perdendo tempo prezioso, sottoponendo a Obama la richiesta solo il 23 novembre, quando era in viaggio verso Las Vegas. La Casa Bianca ribatte: «Abbiamo dato l’ordine quando ci hanno fatto avere un piano da eseguire». Ovvero: il ritardo è stato del «Jsoc». Dietro l’attrito c’è il fatto che i militari tendono a suggerire i raid anche quando la possibilità di successo è solo del 15 per cento. C’è dunque un eccesso di rischio da parte del Pentagono che si spiega con le stime secondo cui un raid di salvataggio di ostaggi ha in media il 50 per cento di possibilità di fallire perché somma troppe variabili negative: «Intelligence insufficiente o inaccurata», «ostaggi spostati o uccisi», «soccorritori uccisi o vittime di imprevisti».