la Repubblica, 8 dicembre 2014
Tra cento giorni si vota in Israele. Un’elezione voluta da Netanyahu che, però, non ha la vittoria a portata di mano...
Shaltiel Abrabanel non credeva in nessun Stato. Né in uno Stato israeliano né in uno Stato palestinese. Né in uno Stato binazionale israelo-palestinese. Odiava l’idea in sé di un mondo frantumato in tanti Stati, con frontiere, con muri di divisione, fili spinati, passaporti, eserciti, bandiere e monete diverse. Gli sembrava assurda, arcaica, primitiva, omicida, ormai superata. Per questo Abrabanel era definito traditore dai suoi compatrioti israeliani come Giuda Iscariota lo fu per i cristiani. L’apostolo tradì Gesù per eccesso di fede, perché era sicuro che una volta sulla croce avrebbe resistito alla morte e dimostrato la sua natura divina. In cui Giuda fermamente credeva, essendo il più cristiano dei cristiani. Anzi il solo vero cristiano. Si impiccherà quando vedrà Gesù agonizzare sulla croce, in apparenza abbandonato da Dio. La Resurrezione avviene troppo tardi, quando lui, Giuda, si è già appeso al ramo di un fico. Cosi passerà alla storia come un traditore. La stessa sorte tocca all’israeliano Abrabanel che, solitario e odiato, affronta l’ondata sionista e predica una società senza divisioni tra arabi ed ebrei. Tanti traditori sono stati in realtà eroi misconosciuti dalla Storia.
Giuda e Abrabanel sono i veri protagonisti (defunti) dell’ultimo grande romanzo di Amos Oz: una fiction con una straordinaria carica di attualità, anche se superbamente estranea alla cronaca e discosta dalla storia conosciuta. La cronaca e la quasi storia da cui straripano le nuove convulsioni politiche della società israeliana, posta davanti a una prospettiva che la ragione ritiene incancellabile, inevitabile e che al tempo stesso la paura e la diffidenza rendono irrealizzabile. Comunque impossibile nel futuro scrutabile. L’utopistica saggezza di Abrabanel, il traditore, è facilmente sconfitta dagli irresistibili sentimenti di odio. Chi vi presta attenzione considera la sua proposta blasfema e assurda. Ma quei sentimenti rendono impossibile anche quel che appare ragionevole: impediscono la nascita di due Stati sovrani affiancati, uno israeliano e l’altro palestinese, oppure uno Stato binazionale israelo – palestinese.
Oltre alla spartizione della Palestina sotto mandato britannico decisa dalle Nazioni Unite (rifiutata dagli arabi come ingiusta settant’anni fa), centotrentacinque Paesi hanno riconosciuto lo Stato palestinese, ed ora si accingono a fare altrettanto anche i parlamenti europei. Quello di Svezia, Francia, Gran Bretagna, Spagna si sono già pronunciati o stanno per farlo. Ma sono legittimazioni simboliche che non impegnano i governi. La Palestina è ancora occupata (o «contesa») e rosicchiata puntualmente dagli insediamenti ebraici, che continuano imperterriti nonostante le risoluzioni dell’Onu e i rimproveri degli americani, i fedeli e imbarazzati protettori di Israele.
Le convulsioni della società politica israeliana sono imputate ai normali problemi economici o all’intolleranza nei confronti di leader impopolari. Ma sullo sfondo, in profondità, c’è sempre il tormentato rifiuto di una convivenza alla pari con i palestinesi. Ed è quello che congela gli animi e determina le scelte politiche. Le crisi periodiche sono per non pochi aspetti simili a quelle italiane (litigi tra partiti, scontri di personalità, dispute sui testi dello Stato) ma il tutto avviene in un contesto assai più drammatico, costellato di morti. E alle spalle c’è una storia che spinge all’angoscia dell’insicurezza. Da qui il nostro riguardo: il nostro inevitabile rispetto.
Tra cento giorni, il 17 marzo, gli israeliani andranno a votare, benché i quattro anni dalla legislatura non siano ancora trascorsi. La crisi esplode il 23 novembre quando il Consiglio dei ministri approva e manda alla Knesset (il Parlamento) un documento in cui si definisce Israele come uno «Stato nazionale del popolo ebraico». Il testo rafforza il ruolo della tradizionale legge ebraica che dà agli ebrei diritti particolari, privilegiati, e limita quelli degli israeliani non ebrei. Non è una novità che la legge neghi i “diritti nazionali” agli arabi come minoranza. Israele è stato creato da ebrei per gli ebrei. Ad esempio la “legge del ritorno” garantisce la cittadinanza agli immigrati ebrei, mentre i palestinesi emigrati nel 1948 non possono ritornare. I motivi sono evidenti: se i palestinesi rifugiatisi nei paesi arabi rientrassero in quello che adesso è lo Stato ebraico, gli equilibri di quest’ultimo verrebbero sconvolti. Le leggi sono diverse per gli uni e per gli altri, ma la situazione si impone, pur non rispettando il principio democratico dell’uguaglianza dei diritti.
A Gerusalemme due dei cinque partiti della coalizione di governo si sono opposti al testo di legge che rafforza i diritti particolari degli ebrei, oltre quelli esistenti, e limita quelli degli israeliani non ebrei. Lo stesso nuovo presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, un religioso, avverte che la legge proposta discrimina gli arabi come un tempo gli ebrei nel mondo. Protestano anche gli americani ribadendo che tutti i cittadini devono avere gli stessi diritti.
Il 2 dicembre, Benjamin Netanyahu, in politica da ventisei anni, al governo per quattordici anni di cui quasi nove come primo ministro, destituisce due leader centristi: dal dicastero della giustizia Tzipi Livni e da quello delle finanze Yair Lapid. Netanyahu teme un complotto ai suoi danni. Sospetta che Yair Lapid, capo del partito “C’è un futuro”, stia tramando con Yitzhak Herzog, capo del partito laburista, per formare un governo di centro sinistra. Nonostante le smentite di Lapid e di Herzog, Netanyahu persiste e il 3 dicembre la Knesset vota la dissoluzione.
Netanyahu è un uomo controverso, ambizioso, arrogante, deciso, abile, capace di dosare la propria intransigenza di leader di destra. A non pochi esponenti del Likud, il suo partito, appare troppo moderato, mentre soprattutto non appare abbastanza forte, quindi vulnerabile, al suo alleato – concorrente Naftali Bennet, capo del “Focolare ebraico”, un miliardario religioso di estrema destra, espressione dei coloni ebrei nei territori occupati. Netanyahu si sente stretto da tutte le parti. Gli estremisti, come Avigdor Liberman, il ministro degli Esteri, leader dei russi immigrati negli ultimi decenni, gli rimprovera di non essere stato abbastanza deciso durante la guerra d’agosto, a Gaza. Moshe Kahlon, ex ministro delle comunicazioni ed ex esponente del Likud, ha conquistato una certa popolarità chiedendo un forte ribasso dei telefoni cellulari, forte di questa notorietà progetta un proprio partito che potrebbe ridurre la forza del Likud. Alcuni membri del Likud, tra i più decisi, non esitano nel frattempo a organizzare preghiere sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme, considerate provocatorie dagli arabi. Anche se gli ebrei considerano sacra la spianata, sotto la quale ci sono le rovine del grande Tempio di Gerusalemme. Netanyahu non manca dunque di guai. Le vampate di terrorismo palestinese mettono in discussione la sua capacità di assicurare la sicurezza.
Proponendo uno Stato nazionale del popolo ebraico Netanyahu si è rivolto a un elettorato in cui prevale una maggioranza di destra. Destra e centrodestra raccolgono il 51 per cento dei consensi stando ai sondaggi. E da questa area elettorale Netanyahu deve raccogliere i voti che gli consentirebbero di prolungare il suo potere (secondo per durata soltanto a quello di Ben-Gurion, il fondatore di Israele). L’accentuazione dei diritti per i cittadini ebrei e la limitazione di quelli per gli israeliani arabi (un milione seicentomila con i drusi) dovrebbero contenere il successo del partito estremista di Bennet e attenuare le intemperanze dei disciplinati membri del Likud, per i quali il primo ministro è un moderato. Ma la svolta a destra comporta dei rischi per Natanyahu. La legge discriminatoria, che approfondisce ancora di più la divisione tra ebrei e musulmani, ha suscitato accuse severe al governo. Si è parlato di apartheid. Non sono mancati coloro che hanno assimilato l’Israele preconizzato da Netanyahu ai Paesi arabi circostanti in cui non prevale certo la democrazia. E dove dominano i principi religiosi, sia pure a scopo nazionalista.
In sostanza Benjamin Netanyahu, anticipando le elezioni, ha indetto un referendum sulla propria persona. Persona controversa anche per uno stile di vita dispendioso in un paese in cui le differenze economiche non sono trascurabili. Soprattutto in una stagione di crisi. Gli israeliani dovranno decidere: ancora Netanyahu? Il partito centrista di Lapid, il giornalista autore di romanzi gialli, potrebbe riscuotere lo stesso successo dello scorso anno nelle classi medie laiche di Tel Aviv. Le agevolazioni fiscali per la nuova casa e la riduzione dei sussidi alle comunità religiose gli consentirono allora di raccogliere molti voti. In tal caso potrebbe riaffiorare la possibilità, in verità non facile, di un centro sinistra. Non facile perché il paese si sbilancia a destra.
Comunque Netanyahu, stretto dai numerosi avversari stanchi, esausti del suo interminabile governo, non ha la rielezione a portata di mano. Sciogliendo la Knesset ha forse sventato i complotti, ma gli ostacoli restano. E sullo sfondo c’è sempre l’irrisolta convivenza con i palestinesi, che ormai il mondo giudica severamente. E il giudizio del mondo, nonostante l’orgoglio, pesa sulla pelle di Israele e dei suoi abitanti.