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 2014  dicembre 08 Lunedì calendario

«Mi sento come Rosa Parks». Federico Pizzarotti, amico dei dissidenti, geloso della sua autonomia, punto di riferimento di chi “cerca soluzioni”. Ora il sindaco di Parma è il primo rivale di Grillo

Ieri mattina Federico Pizzarotti si è svegliato sentendosi come Rosa Parks (lui ha detto Parker, ma passi), la donna nera dell’Alabama che nel ‘55 si rifiutò di cedere a un bianco il suo sedile del bus e scatenò la rivolta per i diritti civili negli Usa. Anche lui ha deciso di non alzarsi e di non cedere il posto. «Io nel Movimento 5Stelle ci resto». Chi diceva «oggi la scissione»? Niente affatto. Non ha bisogno che Gennaro, militante venuto da Milano solo per questo, s’aggiri davanti all’albergo con un cartello “Pizzarotti, dentro il movimento uno vale uno, fuori uno vale zero”. Lo sa benissimo da sé. Infatti non ci pensa proprio a fare un altro partito. Lancia la sfida a Grillo per quello che c’è già. Non è più “capitan Pizza”, bersaglio di dileggi e strofette sul blog del Capo, non è più l’arrendevole temporeggiatore che evita sempre di misura la scomunica e ingoia le umiliazioni, come l’esclusione dal palco del Circo Massimo. Ha passato il Rubicone. Il dado è tratto, si apre la prima vera sfida alla leadership nel Movimento del Capo Inevitabile. Ha aspettato il momento giusto. È cresciuto, si è fatto le spalle robuste anche grazie a una spin doctor speciale, sua moglie Cinzia, minuscola e implacabile, che se le chiedi di Federico risponde «noi stiamo facendo...». Bastava guardarlo, sciolto sorridente, sul palco della sua “Pizzopolda” di successo (quattrocento, un giornalista ogni quattro partecipanti), mattatore sempre in scena, per capire che Pizzarotti non è più il trentanovenne dalla faccina pulita e sbalordita che nel 2012 umiliò il Pd Bernazzoli in un’epica rimonta al ballottaggio, dal 17 al 59% in due settimane. Perito tecnico, consulente bancario, computer nerd dall’età di otto anni, attore dilettante, judoka semipro, bricoleur, frutticultore, tutto ma sindaco non se lo immaginava proprio, neppure di una città massacrata dagli scandali. Prima stella della corona di Beppe, primo grillino di governo, ma durò poco. Troppo amico dei dissidenti emiliani, troppo geloso della sua autonomia di sindaco, troppo disposto a governare mediando con il principio di realtà, ad esempio ingollando l’inaugurazione dell’inceneritore che aveva promesso di chiudere. Così Grillo cominciò ad aspettarlo sulla riva del fiume, quel cadavere politico. Ma non è passato.
Gli passa invece davanti il suo primo vero rivale, piuttosto vivo. Che gli scatena contro un arsenale simbolico impressionante per potenza di fuoco: se Rosa Parks evoca il razzismo, la poesia di Brecht (quella «prima presero i comunisti, poi gli zingari, poi gli ebrei e non dissi mai nulla, poi presero me e non c’era più nessuno per dire qualcosa») scaglia contro le epurazioni spettri ancora più truci. Pizzarotti dipinge un movimento dominato da un clima di intimidazione e di paura, dove l’etichetta «dissidente» fa di te un reietto di cui «non si dice più il nome», «tanti che prima mi abbracciavano ora mi evitano, questo è insopportabile», dove la libertà di parola è schiacciata dalla paura «che arrivi un Ps sul blog». Pizzarotti ribalta il terreno di gioco di Grillo. Dove il guru tonante capitalizza la rabbia e lo sberleffo, sentimenti aggressivi, lui tocca l’altra metà dell’animo del militante, solletica le emozioni positive, «basta lotte interne, basta talebani e dissidenti, il nemico è fuori», non irride ma sorride, non condanna ma include. Osa ribaltare perfino il cuore mitologico della prassi grillina, la democrazia online, il «popolo della Rete» diventa un’orda senza volto di «leoni della tastiera» che demoliscono gli altri dal riparo di un display, «non perdiamo mai di vista che dietro uno schermo c’è un uomo».
Corpi e cuori contro like e link, controffensiva audace, ma non temeraria. Perché Pizzarotti sa che i Cinquestelle non nascono dalla multisolitudine dei computer ma dalle salette accaldate dei meetup. «Io c’ero, il 4 ottobre del 2009 al teatro Smeraldo», a Milano, parto del grillismo politico, e quando evoca lo «spirito del 2009» è questo che invoca, il ritorno alla politica fatta «di persona», e «sul territorio». Sa bene a chi sta parlando. Li ha davanti al palco. Parla ad Antonio Russo, consigliere a Imperia, che si sente «un amministratore, in minoranza, non all’opposizione, cerco soluzioni per la mia città». Parla a Saverio di Livorno, reduce entusiasta dal restauro «con mille ore di lavoro volontario dei militanti» di una struttura per l’handicap. Parla a quelli che cominciano a pensare a un Movimento post-Grillo, grazie Beppe, ora andiamo avanti noi. Parla soprattutto a quelli come la siciliana Valeria, che quando ha detto «vado a Parma» si è sentita dire «ah sei una dissidente» e s’è arrabbiata, «io sto nel Movimento dal 2008 e sapete cosa, se domani mi arriva un post sul blog, me ne infischio». Non è una scissione: somiglia invece a una riappropriazione. L’attacco di Pizzarotti arriva con un tempismo perfetto, nel momento in cui il vertice del Movimento è assieme «stanchino» e scomunicante, e le retromarce nell’urna bruciano. Parla ai #figlidellestelle in ansia dietro i loro tweet, dando loro la speranza che le stelle tornino a brillare. Ne aggiunge un’altra, la sesta, la sua.
Solo una cosa può rovinare tutto. Che Parma lo tradisca. Le mamme in protesta contro il taglio dei servizi ai disabili, il comitato contro i tagli alle biblioteche riecheggiano le “pentolate” che tre anni fa abbatterono la giunta degli scandali. Governare un Comune, di questi tempi, è dura anche per una stella nascente.