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 2014  dicembre 08 Lunedì calendario

Pierre Korkie, l’ostaggio sudafricano morto nel blitz fallito voluto dagli Usa, era a un passo dalla libertà. Il riscatto era già stato pagato e anche l’aereo era prenotato. La moglie lo aspettava a Istanbul


L’attesa era finita. Yolande era convinta che sarebbe stato davvero un Natale felice. Ieri, domenica, avrebbero riabbracciato il marito, Pierre Korkie, sequestrato in Yemen nel 2013 dai predoni di Al Qaeda. Tutto era pronto. I documenti, i biglietti aerei, il riscatto. Appuntamento a Istanbul, dove l’ostaggio sudafricano sarebbe stato trasferito dopo il previsto rilascio. Ma a poche ore dal lieto fine, la storia ha preso un’altra piega. E l’attesa si è tramutata in dolore inconsolabile. Pierre è morto, insieme all’anglo-americano Luke Somers, nel fallito raid sferrato dalle forze speciali Usa. I terroristi – sostiene la ricostruzione ufficiale – li hanno assassinati.
Generosa, ricca di dignità, la famiglia non ha recriminato. Come non ha protestato il governo del Sudafrica per il quale «non è il momento delle accuse». Ha chiesto, invece, chiarimenti l’opposizione perché il destino di Pierre poteva essere diverso. Altri, e non solo i suoi killer, hanno deciso per lui.
I Korkie erano da alcuni anni nello Yemen, con loro due figli adolescenti. Posto di frontiera, zona a rischio per un occidentale, Paese dove il rapimento è una questione quotidiana. Lui si dedicava all’insegnamento dei ragazzi poveri, lei all’assistenza umanitaria. Ed erano insieme nella primavera del 2013 a Taiz. Pierre, 56 anni, e Yolande, 44, dovevano partire per il Sudafrica ma appena usciti dall’hotel dove soggiornavano sono stati rapiti da un gruppo di Al Qaeda nella penisola arabica. Forse una fazione scissionista decisa a finanziarsi con il riscatto, fissato inizialmente a 3 milioni di dollari e diventato il centro della trattativa con i consueti alti e bassi.
A gennaio i criminali liberano Yolande grazie all’azione di un clan locale e le consegnano le condizioni per ottenere il rilascio del marito. Tornata in Sudafrica la donna si lancia in una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica e trovare le risorse che strapperanno Pierre ai carcerieri islamisti. Lotta severa condotta insieme ai due figli anche con gesti simbolici. I tre indossano come pigiama delle t-shirt del capo famiglia e si rifiutano di mangiare il suo cibo preferito. Si affidano ai negoziatori, sanno che la via per la libertà è tortuosa, piena di trappole. Davanti hanno una gang che non ci pensa due volte se deve far fuori il prigioniero.
Yolande, come altri parenti di ostaggi, usa i videomessaggi, confida nella clemenza dei terroristi. In uno degli appelli lei e la figlia indossano il velo, un segno di rispetto verso la tradizione musulmana e un tentativo di ammorbidire il cuore di pietra degli estremisti. La moglie ricorda i problemi di salute di Pierre, chiede umanità, spera nel negoziato e prega per una conclusione positiva. Che arriva. I sequestratori fanno uno sconto accontentandosi – pare – di appena 200 mila dollari.
Fissato il «prezzo», si definiscono le ultime fasi. Sono giorni di tensione. Il 25 novembre le forze locali, con l’appoggio di unità scelte statunitensi, tentano una prima incursione: cercano Luke Somers, ma non lo trovano. I qaedisti lo hanno spostato in un luogo segreto. Pentagono e Cia, però, non mollano la presa, continuano a cercare sulla base di informazioni di intelligence ritenute sicure. Lo sono. Almeno per quanto riguarda la nuova prigione. Sul resto molta nebbia.
«Non sapevamo dell’accordo su Korkie», si difendono da Washington. E si ipotizza che non fossero a conoscenza della sua presenza, ma solo di un altro ostaggio. Verità o scuse che accenderanno magari delle polemiche senza ridare la vita ad un uomo del quale si è parlato poco. Quasi che fosse la vittima inevitabile di un’operazione finita male.