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 2014  dicembre 08 Lunedì calendario

Criminalità reale e legale. Bisogna per elaborare strategie più efficaci in tema di sicurezza pubblica. Sui trend dei reati s’indaga poco. I dati dinamici offrono indicazioni utili

Dove si radica la criminalità, che direzione prende il fenomeno dell’insicurezza? Tradotto il quesito nei numeri, si può sostenere che essi lasciano intendere pesi più rilevanti al Nord: Milano, Bologna, Torino, Genova. In mezzo, geograficamente e nella statistica, c’è Roma. I dati paiono mostrare che oggi il rischio si alleggerisce al Sud e nelle province montane. Insomma, se si osserva la tendenza, appare in rialzo in quattro capoluoghi, mentre resta invariata in due e scende in dieci, con particolare decremento a Napoli. Bilanciando i due indicatori (dato statico e dato dinamico) si tenta così di apprezzare il senso di marcia. Di più è difficile ottenere. Ci si deve basare su una statistica assai parziale, che aiuta a capire se però si verifica una condizione: che ci sia attorno una cornice dove si inquadrano molti altri indicatori. È quanto avviene nel rapporto annuale del Sole 24 Ore, grazie al paniere di ben 36 parametri per le classifiche. Così, collocati nella misurazione della Qualità della vita, i dati della criminalità “registrata” aiutano a delineare un fenomeno pur tuttavia ambiguo.
Con un curioso ossimoro i vecchi manuali lo indicavano con “criminalità legale”. Per distinguerla dalla “cifra oscura” dei reati. In pratica, i delitti per i quali si dispone di una traccia ufficiale – la denuncia formale alla polizia o al pubblico ministero – possono includersi nella criminalità portata a giudizio (di qui l’aggettivo “legale”). Quella semplicemente denunciata o querelata è detta criminalità “apparente”. Infine, ma siamo nel campo della mera logica, se si dovesse misurare tutta la concreta devianza delittuosa si tenterebbe di pervenire alla metrica della criminalità “reale”. Il vero rebus sta qui: perché la criminalità “apparente” è la frazione del fenomeno che l’apparato di polizia intercetta nelle mille città. Quella “legale” sono i reati per i quali si procede e si conclude. Infine, c’è quella priva di qualsiasi traccia (nessuno denuncia, nessuno rileva) e la cui estensione dipende da un insieme di fattori. Alcuni materiali (densità di servizi di polizia, efficienza degli apparati, produttività della giustizia) e altri “immateriali” (cultura, senso comune, costume, fiducia o diffidenza verso la giustizia). Detto brutalmente: più si denuncia, più s’incrementano i valori statistici.
Dovrebbe quindi risultare ovvio, ma non più di tanto. Per mettere a fuoco come la questione criminale influenza, o è condizionata, dall’incedere della Grande Crisi, si ha necessità di un sistema aggiornato di dati, di informazioni strutturate, sulle quali fondare l’analisi obiettiva. Da mettere al riparo dalle polemiche strumentali, dalle retoriche dell’allarme sociale. In sostanza, una cognizione del reale da salvaguardare da ricorrenti manipolazioni, vero problema “aggiuntivo” per chi ha l’incarico di decidere, di elaborare indirizzi strategici in tema di sicurezza pubblica. 
Tutto questo supporto, in verità, non è disponibile. Da una decina d’anni è stato smantellato il tradizionale compendio di statistiche giudiziarie dell’Istat. Non che fosse soddisfacente, quell’annuario di due volumi ponderosi, pubblicato in ritardo di almeno un paio d’anni. Tutt’altro, ma almeno rendeva possibile confronti degli essenziali repertori di dati: sui procedimenti penali e civili, sulle condanne e sul turnover nelle carceri, sui fallimenti e sulle bancarotte e tanto altro ancora. Con un metodo ben elaborato e con un set di indicatori di sfondo, si potevano ottenere informazioni spendibili su singoli fenomeni e sulla loro distribuzione nelle province. Ricavando un’immagine sociologica della questione giudiziaria e della criminalità, avvalendosi di criteri e idee utili a “demistificare” quel che le istituzioni ci propongono di loro attraverso continue statistiche. 
Già, perché se davvero si vuol disporre di un’ipotesi razionale su quel che succede sul fronte insicurezza, si è costretti a un paziente lavoro a mosaico: tessera dopo tessera, per andare oltre banali impressioni, inferenze, forzature retoriche. Qui ci si sofferma su un asse di questa visione: la comparazione di un dato statico – quello dei delitti registrati per 100mila abitanti – con un altro, che possiamo dire dinamico, qual è il trend su un medio periodo di cinque anni. Dove il quoziente è più contenuto, occorre valutare la tendenza e capire se però i numeri si vanno incrementando o riducendo ancora. E viceversa, nelle province che sembrano peggiorare. A complicare c’è la questione della non uniforme distribuzione dei presidi organizzativi di chi costruisce il dato. Per l’insormontabile ragione che a meno sedi di polizia e carabinieri corrisponde meno propensione a denunciare.
Oltre il 50% dei reati, occorre ricordarlo, non viene affatto denunciato. E la ragione è in parte dovuta alla disponibilità sul territorio, nei pressi del cittadino, di un ufficio o di una struttura di polizia cui chiedere aiuto o reclamare. E allora meno si reclama, meno si sa dell’impatto tra condotte criminali e territorio. E senza conoscere, come si fa a deliberare in tempi di revisione della spesa? Come si possono collocare le risorse scarse? Giovano due ingredienti: la conoscenza di quanto si agita nella realtà e l’indicazione di obiettivi chiari ed elevati al sistema di sicurezza pubblica. Rapidamente vanno messe a punto entrambe.