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 2014  dicembre 08 Lunedì calendario

Nazionalizzare l’Ilva per salvare il settore e un’intera città. Magari seguendo gli esempi di Renault o Railtrack le lezioni degli altri in Europa. Il grande ritorno allo Stato Padrone

Nazionalizzare si può. Da slogan degli economisti della sinistra radicale la ricetta del ritorno dello Stato in consiglio di amministrazione sta diventando realtà con il governo Renzi. Complice il disastro dell’Ilva, una delle più grandi acciaierie d’Europa che senza la mano pubblica rischia la chiusura. «Se perdessimo le produzioni italiane di acciaio spiega il patron di Brembo Alberto Bombassei – questo avrebbe pesanti conseguenze sull’intero sistema della nostra manifattura». Interesse nazionale dunque. E, pare di capire da quel che trapela negli uffici dell’esecutivo, anche una presenza, temporanea, dello Stato, nell’azionariato. Per salvare non solo le migliaia di dipendenti e l’economia di un’intera città. Ma anche una parte non irrilevante della struttura economica d’Italia. È davvero una bestemmia immaginare di avere, per quanto in situazioni eccezionali, il ritorno dello Stato padrone? In giro per l’Europa non è peccato. Uno dei motivi che da noi rendono abbastanza impopolare il ritorno del pubblico in cda è la storia del capitalismo italiano del Novecento. L’epoca dei boiardi, dei signori dell’azione pubblica. Quando lo Stato produceva i panettoni della Sme e aveva la maggioranza delle quote nelle società dei servizi. Quando alle assemblee Telecom i piccoli azionisti discutevano per l’intera giornata sprecando energie in liti e tornei oratori fino al momento in cui un signore si alzava dalle prime file, andava al microfono e con tono pacato faceva un breve discorso che suonava immancabilmente così: «Buongiorno. Sono l’avvocato Tali e in questa assemblea rappresento il Tesoro (cioè, all’epoca, l’80 per cento delle azioni n.d.r.). Sono favorevole alla proposta presentata dal Consiglio di amministrazione e voterò sì. Arrivederci». Fine dell’assemblea. Torneranno quei tempi? Probabilmente no e molti se lo augurano. Semplicemente perché non è automatico che la proprietà pubblica, o anche solo una golden share pubblica, debbano per forza coincidere con inefficienze e sprechi. Il caso virtuoso è quello tedesco. Dove grandi aziende manifatturiere pubbliche non ci sono ma dove esiste una notevole capacità del pubblico di condizionare le scelte delle aziende private. Ad esempio attraverso le quote dei Lander, i potenti governi regionali. Il Land della Bassa Sassonia possiede il 19,9 per cento della Volkswagen, casa automobilistica indubitabilmente privata. Quella minoranza di blocco in mano al governo regionale può fermare ogni decisione considerata strategica per il futuro dell’azienda. Invano nel corso degli anni l’Unione Europea ha tentato di ottenere da Berlino l’abrogazione della cosiddetta «legge Volkswagen» che garantisce il potere del socio pubblico fin dal dopoguerra. Ancora lo scorso anno l’Ue ha perso di fronte alla Corte di Strasburgo l’ultimo ricorso. Il modello pubblico/privato tedesco sembra in Europa quello che attualmente garantisce i migliori risultati economici. Come è noto prevede anche un forte coinvolgimento dei sindacati nelle scelte delle grandi aziende. Il caso della Francia è noto per il grande ruolo che gioca in ogni caso la mano pubblica. Anche quando, è il caso di Air France, lo stato possiede solo il 15 per cento del gruppo nato dalla fusione con gli olandesi di Klm. Oltralpe il peso delle scelte politiche è ben maggiore delle partecipazioni azionarie. Quando l’attuale crisi industriale ha cominciato a far sentire i suoi effetti in Europa, il governo di Parigi ha deciso di stanziare 6 miliardi di euro a sostegno dell’innovazione della propria industria automobilistica. Non solo di Renault, in mano pubblica dal 1935 al 1996, ma anche di Peugeot, all’epoca totalmente privata. Un finanziamento statale che fece scandalo ma che consentì al governo di imporre ai costruttori nazionali di continuare a produrre in Francia e non delocalizzare all’estero. Ancora oggi, dopo la privatizzazione e l’alleanza con Nissan, lo Stato possiede il 15 per cento della Regie Nationale des Usines Renault. Mentre l’esecutivo di Parigi ha giocato un ruolo decisivo nel salvataggio di Peugeot, da sempre privata e ora posseduta al 20 per cento dal governo e al 20 per cento dai cinesi di Dongfeng. Perché, nonostante gli aiuti di Stato e la presenza del governo nella proprietà delle aziende, la mano pubblica non è riuscita a mettere al riparo le aziende dalla crisi e dal rischio di soccombere. Del resto, nel settore automobilistico il ricorso alla mano pubblica è stato necessario anche nel tempio dell’iniziativa privata: ancora oggi i puristi del liberismo rinfacciano al governo Obama i salvataggi di Chrysler e General Motors. Una storia certamente paradossale è quella del ritorno della Gran Bretagna alle ferrovie pubbliche. La privatizzazione di Railtrack era stato uno dei vanti dei governi conservatori di Margareth Thatcher. Cedere ai privati la gestione della rete dei binari era parsa una buona idea per recuperare valore e far ritirare lo Stato da uno dei servizi chiave. Ma ben presto il piano si rivelò un disastro. L’incidente del 17 ottobre del 2000, quando 4 persone morirono per il deragliamento di un treno ad alta velocità sulla tratta Londra-Edimburgo, mise in evidenza le gravi carenze nella manutenzione affidata alla società privatizzata. Soprattutto, i vertici di Railtrack si resero conto di aver esternalizzato ad altri privati tutte le competenze di manutenzione: così la società non era più in grado di ricostruire la storia e i problemi delle singole tratte. Presto Railtrack fallì: il timore di nuovi incidenti aveva imposto velocità commerciali troppo basse finendo per paralizzare il traffico. Toccò allo Stato fondare (e foraggiare con i denari del contribuente) una nuova società pubblica, la Network Rail, incaricata di rimettere in piedi la rete ferroviaria britannica. Il piano di privatizzazioni dei governi di centrodestra guidati da José Maria Aznar aveva già portato nella seconda metà degli anni Novanta 32 miliardi di euro nelle casse dello Stato spagnolo. Erano passate in altre mani società come l’energetica Endesa, finita all’Enel, mentre di Telefonica era stato ceduto un pacchetto del 21 per cento. Ora invece il governo Raoy ha in programma la privatizzazione di Aena, l’operatore dei servizi aeroportuali. Una società che vale 16 miliardi e che il governo di Madrid intende cedere al 49 per cento in due tranches. L’obiettivo è quello di incassare, al netto dei debiti, circa 2,5 miliardi di euro. Rimangono ancora in mano pubblica le ferrovie, che presto saranno a loro volta privatizzate a partire dalle linee di alta velocità gestite dall’operatore pubblico Renfe che collegano Madrid alla costa. Un discorso a parte merita infine la Tve, la tv pubblica spagnola che usufruisce di sovvenzioni statali e in cambio da quest’anno non trasmette più pubblicità nei suoi programmi. Le possibilità di intervento pubblico in giro per l’Europa sono dunque numerose e non necessariamente considerate un’eresia. Quasi sempre l’intervento delle casse dello Stato viene giustificato con la necessità di tutelare attività economiche ritenute strategiche o di rimettere in sesto aziende disastrate dalla mala gestione dei privati, com’è accaduto con le ferrovie inglesi. Quasi mai accade invece quel che si è verificato per molti decenni in Italia: l’intervento della mano pubblica come ammortizzatore sociale, per garantire cioè un reddito a decine di migliaia di persone che il sistema privato non sarebbe in grado di mantenere.