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 2014  dicembre 08 Lunedì calendario

È tutta asiatica la classifica dei gruppi mondiali dell’acciaio. In testa troviamo l’indiana mittal che ha acquistato la francese arcelor, quindi nippon steel e poi una lunga teoria di nomi cinesi: hebei, baosteel, wuhan. sesti i coreani

È tutta asiatica la classifica dei gruppi mondiali dell’acciaio, quelli contro cui dovrà battersi la rinnovata Ilva, privata o pubblica che sia. Un’impressionante lista di bandierine cinesi in primise poi indiane, giapponesi, sudcoreane, per la maggior parte gruppi nati negli ultimi decenni, quelli della prepotente industrializzazione ad est. Per trovare un nome occidentale bisogna scendere fino alla casella 13, occupata dalla gloriosa US Steel, peraltro con una produzione ormai ridotta a non più di 20 milioni di tonnellate. Che sono poi esattamente quelli che potrebbe produrre, secondo la capacità installata, una rilanciata Ilva (ora siamo su livelli assai inferiori, non più di 8 milioni autorizzati dalla gestione commissariale di cui solo 5,7 effettivamente prodotti nel 2013). Per la verità il primo gruppo in classifica, l’ArcelorMittal, risulta con sede a Lussemburgo. Ma è solo una soluzione, ovviamente, fiscale. In realtà i proprietari sono gli indiani della famiglia Mittal, che hanno acquistato per 30 miliardi di euro nel 2006 la Arcelor (che derivava a sua volta dalla fusione della francese Usinor, erede della storica siderurgia pubblica dell’Alsazia-Lorena, con la spagnola Aceralia). Fu un’acerrima battaglia contro i russi delle Severstal che erano a un passo dall’affare: i Mittal si inserirono a gamba tesa all’ultimo momento scompaginando i piani con un takeover ostile che alla fine ebbe la meglio su quello concordato che invece stava per chiudersi. Non solo l’inizio fu rocambolesco: nel 2008 il Ceo Lakshmi Mittal annunciò il licenziamento di 30mila dipendenti e la chiusura di diversi impianti specialmente in Europa ma anche in America (quello della controllata Bethlehem vicino New York e quello della Ltv Steel nell’Illinois). I travagli non erano finiti: pochi mesi dopo il gruppo fu coinvolto in un’accusa di cartello mossa dal commissario europeo alla concorrenza Joaquin Almunia, che scoprì che 17 società siderurgiche europee si scambiavano sottobanco informazioni e direttive per tenere artificiosamente alti i prezzi dell’acciaio da ben 18 anni. Finì con maxi-multe per tutti, e l’ArcelorMittal pagò la più salata (era la principale accusata). Oggi il gruppo produce 96,1 milioni di tonnellate di acciaio: a conferma del trend orientale di cui si diceva, è un netto calo dai 116,4 del 2007 mentre i concorrenti asiatici sono tutti in vertiginoso aumento. Al secondo posto in classifica troviamo la Nippon Steel, che ha prodotto l’anno scorso 50,1 milioni di tonnellate con un secco incremento rispetto ai 35,7 del 2007 a dispetto della crisi del Paese, aumento dovuto però per lo più al merger con la Sumitomo Metal (nel 1970 aveva invece rilevato la Fuji Iron & Steel). Nata nel 1950, la società è diventata forse più di qualunque altra il simbolo della ricostruzione e della tumultuosa crescita del Giappone nel dopoguerra fino al ruolo di seconda potenza mondiale (oggi è stata superata dalla Cina e si batte spalla a spalla con la Germania per restare sul podio). La Nippon Steel è oggi quasi miracolosamente visto l’”ecosistema” in cui si trova ad operare, una società sana con 125mila dipendenti, 45 miliardi di euro di fatturato e 2 di utile netto, ma in passato ha avuto i suoi guai. In particolare, nel 1981 scoppiò una violenta crisi con la necessità di massicci licenziamenti: ma in osservanza alla (buona) abitudine giapponese di non licenziare mai nessuno, a parte i prepensionamenti si inventò una serie di diversificazioni anche impensate, dalla chimica fino ai semiconduttori, dal parco a tema Space World fino addirittura alla coltivazione di funghi che utilizza il calore prodotto delle fornaci. La crisi fu comunque lunga da superare perché in quegli anni stavano emergendo i concorrenti sudcoreani e di altre neo-tigri (infine la Cina), che facevano concorrenza soprattutto per il costo del lavoro. Solo negli anni ’90 la Nippon ne venne a capo, ma la vera svolta è degli anni 2000, quando con il nuovo partner Sumitomo sperimentò nuove soluzioni tecnologiche (come il carbone derivante dai rifiuti in plastica o nuove leghe superleggere per i container) che ripristinarono a forza di investimenti da molti miliardi di yen la profittabilità. Il terzo gruppo mondiale del settore è la Hebei, colosso cinese da 40 miliardi di dollari di fatturato nato nel 2008, così come cinesi sono la Baosteel (quarta), che ha legato il suo nome a quella che è rimasta per molti anni la principale Opa sulla Borsa di Shanghai (l’equivalente di 1,5 miliardi di euro nel 2000) e la Wuhan Iron and Steel. Sono tutte aziende statali, che beneficiano più di quelle di qualsiasi altro settore, di una razionale e minuziosa pianificazione. Per ognuna viene identificata un’area, poi le vengono assegnati i migliori ingegneri disponibili a seconda della zona e della specializzazione, le viene attribuito un giusto numero di commesse pubbliche e l’accesso alle miglior tecnologie disponibili. Oggi tutte e tre producono intorno ai 40 milioni di tonnellate, con aumenti esponenziali soprattutto per la Wuhan che ha raddoppiato dal 2007 ad oggi. Al sesto posto compare la già citata e potente sudcoreana Posco, fondate nel 1968 con 38,4 milioni di tonnellate prodotte (erano 31,1 nel 2007), 64 miliardi di dollari di fatturato e 3,2 miliardi di utile l’anno scorso. In aggiunta, la Posco ha in corso una jointventure con la Us Steel che ha un importante stabilimento in California. È un gruppo interamente pubblico: nel 1997 il governo di Seul annunciò l’intenzione di privatizzarlo almeno in parte, ma i primi tentativi di emettere azioni rivelarono una risposta di mercato così negativa che un anno dopo il progetto rientrò. La top ten della siderurgia si chiude con un’altra sfilza di società cinesi – Jiangsu Shagang, Anstee e Shougang – e infine con una giapponese, la Jfe. Per la cronaca, all’undicesimo posto c’è il gruppo indiano Tata, al 12° ancora uno cinese, Shandong, e al tredicesimo come si diceva ecco gli americani. La classifica dei gruppi siderurgici del mondo, dove l’Ilva sta precipitando nelle zone più basse; a destra la sede della Nippon Steel a Tokyo.