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 2014  dicembre 08 Lunedì calendario

«Un romanziere è più dotato per lo scritto che per l’orale. È abituato a tacere e se vuole permearsi di un’atmosfera, deve confondersi con la folla. La sua parola è esitante, per via dell’abitudine a correggere gli scritti. Certo, dopo molteplici correzioni, il suo stile può apparire limpido. Ma quando prende la parola, non ha più la risorsa di poter intervenire sulle sue esitazioni». Lo dice Patrick Modiano, premio Nobel 2014

Uno scrittore – o per lo meno un romanziere – ha spesso rapporti difficili con la parola. E se si pensa alla distinzione scolastica tra scritto e orale, un romanziere è più dotato per lo scritto che per l’orale. È abituato a tacere e se vuole permearsi di un’atmosfera, deve confondersi con la folla.
Ascolta le conversazioni senza dare nell’occhio, e se interviene è sempre per porre discretamente domande al fine di capire meglio le donne e gli uomini che lo circondano. La sua parola è esitante, per via dell’abitudine a correggere gli scritti. Certo, dopo molteplici correzioni, il suo stile può apparire limpido. Ma quando prende la parola, non ha più la risorsa di poter intervenire sulle sue esitazioni.
E poi appartengo a una generazione in cui non si lasciavano parlare i bambini, salvo in certe occasioni piuttosto rare e solo se chiedevano il permesso. Ma non li si ascoltava e molto spesso gli si toglieva la parola. Questo spiega la difficoltà di elocuzione di alcuni di noi, a volte esitante, altre troppo rapida, come se temessimo a ogni istante di venire interrotti. Nasce sicuramente da questo il desiderio che mi ha preso di scrivere, come capita a molti, uscendo dall’infanzia. Speri che gli adulti ti leggeranno. In questo modo saranno obbligati ad ascoltarti senza interromperti e finalmente sapranno che cosa ti pesa sul cuore.
L’annuncio di questo premio mi è parso irreale ed ero ansioso di sapere perché mi avevate scelto. Credo di non aver mai sentito fortemente come quel giorno quanto un romanziere sia cieco rispetto ai propri libri e quanto i lettori ne sappiano molto più di lui su ciò che ha scritto. Un romanziere non può mai essere lettore di se stesso, salvo che per correggere nei manoscritti errori di sintassi, ripetizioni, o sopprimere un paragrafo di troppo. Ha un’idea confusa e parziale dei suoi libri, come un pittore che dipinge un affresco sul soffitto e che, sdraiato su un trabattello, lavora ai dettagli, troppo da vicino, e non ha una visione d’insieme.
Curiosa attività solitaria, quella di scrivere. Passi per momenti di scoraggiamento, quando butti giù le prime pagine di un romanzo. Ogni giorno hai l’impressione di aver preso la direzione sbagliata. E allora la tentazione è grande di tornare indietro e imboccare un’altra via. Non bisogna cedere a questa tentazione, bisogna rimanere sulla stessa strada. È un po’ come essere al volante di un’auto, di notte, in inverno, e guidare sul ghiaccio, senza alcuna visibilità. Non hai altra scelta, non puoi fare marcia indietro, devi continuare ad andare avanti dicendoti che la strada finirà ben per essere più stabile e la nebbia si dissiperà.
Quando stai per finire un libro, ti sembra che cominci a staccarsi da te e che respiri già l’aria della libertà, come i bambini, in classe, alla vigilia delle vacanze estive. Sono distratti e rumorosi e non ascoltano più l’insegnante. Direi persino che quando scrivi gli ultimi paragrafi, il libro ti dimostra una certa ostilità nella fretta che ha di liberarsi di te. E ti lascia non appena hai tracciato l’ultima parola. È finito, non ha più bisogno di te, ti ha già dimenticato. Sono i lettori ormai che lo riveleranno a lui stesso. In quel momento provi un gran vuoto e la sensazione di essere stato abbandonato. E anche una specie di insoddisfazione a causa del legame tra il libro e te, che è stato reciso troppo in fretta. Questa insoddisfazione e questa sensazione di qualcosa d’incompiuto ti spingono a scrivere il libro successivo per ristabilire l’equilibrio, senza che tu ci riesca mai. A mano a mano che gli anni passano, i libri si succedono e i lettori parleranno di «un’opera». Ma tu avrai l’impressione che non si sia trattato che di una lunga fuga in avanti.
Sì, il lettore ne sa di più su un libro dello stesso autore. Accade, tra un romanzo e il suo lettore, un fenomeno analogo a quello dello sviluppo delle fotografie, come si faceva prima dell’era digitale. Quando veniva sviluppata nella camera oscura, la foto diventava visibile a poco a poco. A mano a mano che si avanza nella lettura di un romanzo, avviene lo stesso processo chimico. Ma perché esista un accordo di questo genere tra l’autore e il lettore, è necessario che il romanziere non forzi mai il lettore – nel senso in cui si dice che un cantante forza la voce – ma lo trascini impercettibilmente e lo lasci sufficientemente libero affinché il libro lo impregni a poco a poco, e con un’arte simile all’agopuntura dove basta piantare l’ago in un punto molto preciso e il flusso si propaga nel sistema nervoso.
Di questa relazione intima e complementare tra il romanziere e il lettore, credo si trovi l’equivalente in ambito musicale. Ho sempre pensato che la scrittura sia simile alla musica ma molto meno pura e ho sempre invidiato i musicisti che mi sembrava praticassero un’arte superiore al romanzo – e i poeti, che sono più prossimi ai musicisti dei romanzieri. Ho cominciato a scrivere poesie da bambino ed è sicuramente grazie a questo che ho potuto capire meglio la riflessione che ho letto da qualche parte: «È con i cattivi poeti che si fanno i prosatori». E poi, per quel che riguarda la musica, si tratta spesso, per un romanziere, di trascinare tutte le persone, i paesaggi, le vie che ha potuto osservare in una partitura musicale dove si ritrovino gli stessi frammenti melodici da un libro all’altro, ma una partitura musicale che gli sembrerà imperfetta. Ci sarà, nel romanziere, il rimpianto di non essere stato un musicista puro e di non aver composto I notturni di Chopin. (…)
Nella dichiarazione che è stata fatta in seguito all’annuncio del premio Nobel, ho memorizzato la frase che alludeva alla seconda guerra mondiale: «Ha svelato il mondo dell’Occupazione». Come tutte e tutti coloro che sono nati nel 1945, io sono un figlio della guerra, e più precisamente, essendo nato a Parigi, sono un figlio che ha dovuto la sua nascita alla Parigi dell’Occupazione. Le persone che hanno vissuto in quella Parigi hanno voluto dimenticarla molto presto, oppure ricordarne solo alcuni dettagli quotidiani, di quelli che davano l’impressione che dopo tutto la vita di ogni giorno non era stata così diversa da quella che conducevano in tempi normali. Un brutto sogno e anche un vago rimorso di essere stati in un certo senso dei sopravvissuti. E quando i loro figli li interrogavano in seguito su quel periodo e su quella Parigi, le loro risposte erano evasive. Oppure tacevano come se volessero cancellare dalla loro memoria quegli anni cupi e nasconderci qualcosa. Ma confrontati al silenzio dei nostri genitori, noi abbiamo capito tutto, come lo avessimo vissuto. (…)
In questa Parigi da brutto sogno, dove si rischiava di essere vittime di una denuncia e di una retata all’uscita di una stazione di metropolitana, avvenivano incontri dettati dal caso tra persone che in tempo di pace non si erano mai incrociate, nascevano amori precari all’ombra del coprifuoco senza che si fosse sicuri che ci si sarebbe rivisti nei giorni successivi. Ed è in seguito a questi incontri spesso senza domani, e in certi casi a questi cattivi incontri, che più tardi dei bambini sono nati. Ecco perché la Parigi dell’Occupazione è sempre stata per me come una notte originaria. Senza quella Parigi, non sarei mai nato. Quella Parigi non ha mai smesso di ossessionarmi e nella sua luce velata sono spesso immersi i miei libri. (…)
Traduzione di Gabriella Bosco