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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

Martedì un agente di Phoenix avrebbe sparato a un altro nero disarmato. New York scende in piazza al grido di «Non riesco a respirare». Le ultime parole di Eric Garner, ucciso a Staten Island

Adesso è una crisi nazionale. Oltre Ferguson, oltre la morte di Eric Garner a Staten Island, oltre le polemiche sulle violenze della polizia e i tentativi di riformarla. Non solo per la manifestazione che leader neri come Al Sharpton preparano per il 13 dicembre a Washington, o perché lo dicono il presidente Obama e il sindaco de Blasio, ma per la partecipazione della gente alle proteste che ormai riguardano l’intero tessuto sociale americano. «I can’t breathe», le ultime parole pronunciate da Garner prima di morire, sono diventate uno slogan: «Non posso respirare», non solo per la presa al collo dell’agente Daniel Pantaleo (che ha già due denunce per violazione dei diritti civili). Ieri è venuto alla luce un altro caso: un nero disarmato è stato ucciso martedì dalla polizia di Phoenix, in Arizona. L’agente lo aveva fermato per sospetto spaccio di droga, ma Rumain Brisbon, 34 anni, aveva in tasca solo delle pillole.
L’aspetto legale dell’ultima crisi razziale è chiaro. Eric vendeva sigarette di contrabbando, era già arrestato una trentina di volte, e non voleva tornare in manette. Ma quando i poliziotti lo hanno circondato, il 17 luglio scorso, hanno usato una forza che appare esagerata, nelle immagini riprese col cellulare dal passante Ramsey Orta. Però il Grand Jury, dopo nove settimane di processo e 50 testimoni sentiti, ha deciso di non incriminare Daniel Pantaleo. Probabilmente anche perché Staten Island è il quartiere più conservatore di New York, e la sua gente è più incline a stare dalla parte della polizia. «Durante la mia testimonianza – ha denunciato Orta – non mi hanno neppure ascoltato. Avevano già deciso». De Blasio promette che «ci saranno altri capitoli in questa storia», perché il dipartimento alla Giustizia ha confermato l’apertura di un’inchiesta federale per stabilire se i diritti civili di Garner sono stati violati. Qui però entra la politica, e la crisi diventa nazionale. De Blasio ieri ha annunciato nuove iniziative per riaddestrare la polizia di New York, ha detto che «le riforme stanno già avvenendo. La gente deve recuperare la fiducia nei confronti delle forze dell’ordine». È ovvio che lo dica, come sindaco, ma la crisi ormai è già andata molto oltre.
Era facile capirlo mercoledì sera, camminando fra i manifestanti che hanno marciato dalla stazione di Gran Central a Times Square, dal Rockefeller Center dove si accendevano le luci dell’albero di Natale, all’autostrada che corre intorno a Manhattan. In mezzo alla gente che andava a prendere la metropolitana per tornare a casa, spuntava una signora cinquantenne che alzava il suo cartello: «Giustizia uguale per tutti». Un’insegnante, bianca, non una scalmanata. La polizia mercoledì sera ha fatto 83 arresti, ma per la maggior parte le manifestazioni spontanee sono state pacifiche. Questo segnala una maturità e un’organizzazione da movimento politico, più che una reazione rabbiosa e istintiva, e spiega perché la crisi sta salendo verso un livello più alto. Una revisione dei rapporti nell’intera società americana, non solo fra i neri e i poliziotti.
Lo ha capito Obama, che ieri ha ripetuto: «Troppi americani avvertono una profonda ingiustizia riguardo la distanza fra gli ideali che professiamo, e come poi le leggi vengono applicate. Ma oltre al problema specifico che va affrontato – la fiducia nelle forze dell’ordine – c’è una questione più ampia: ristabilire il senso di avere uno scopo comune». E Hillary Clinton ha aggiunto: «I neri sono ancora presi di mira dalla polizia più degli altri. Abbiamo il 5% della popolazione mondiale e il 25% dei detenuti: il sistema giudiziario è squilibrato»