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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

Adelphi pubblica le ultime pagine di Kiš, il primatista mondiale in fatto di muri abbattuti. Che fossero geopolitici, religiosi o ideologici. Un ritratto dello scrittore – nato da un padre ebreo e da una madre cristiano-ortodossa – che visse Ungheria, Serbia e Montenegro, nazisti, comunisti e opportunisti e che scrisse: «Quando all’uomo non rimane altro, comincia a scrivere. La scrittura è un atto di disperazione, non di speranza. L’unico dilemma è se mettersi la corda al collo o mettersi a scrivere»

Abbiamo appena finito di celebrare i 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino. Ma ci siamo dimenticati di ricordare la morte, avvenuta il 18 ottobre 1989 (pochi giorni prima del fatidico 9 novembre, giorno in cui il governo della Germania Est dichiarò che le... «visite» dall’altra parte erano consentite), di Danilo Kiš, lo scrittore primatista mondiale in fatto di «muri» abbattuti.
Kiš era nato nel ’35, da padre ebreo ungherese e madre cristiana montenegrina, a Subotica, in Serbia, a due passi dal «muro» che separava dall’Ungheria. Quando aveva quattro anni, essendo state promulgate le leggi antiebraiche in Ungheria, cioè ufficializzato il secondo «muro», venne battezzato nella chiesa ortodossa di Novi Sad, un centinaio di chilometri più a Sud. Ma a Novi Sad nel ’42 ci fu un massacro di ebrei compiuto proprio dai fascisti ungheresi, quindi il piccolo Danilo si rifugiò in Ungheria con la mamma e la sorella maggiore. Non con il padre, internato ad Auschwitz, da dove non fece più ritorno. Nel ’47, altro giro, e altro «muro»: si va a Cetinje, la città natale della madre. Fin qui, i «muri» diciamo così geopolitici. Poi ci sono quelli religiosi: fra l’ebraismo del padre, l’ortodossia della madre e quel po’ di educazione cattolica ricevuta a scuola da una maestra.
Non è finita. Potevano mancare i «muri» ideologici e/o di bottega? Jugoslavo e dunque formatosi, da studente bohémien all’Università di Belgrado, in un Paese comunista, pur non considerandosi mai un «dissidente» Kiš fu tra i primi ad alzare il pesante e plumbeo sipario-«muro» che nascondeva, dietro le quinte dell’universo concentrazionario sovietico, gli stessi orrori da addebitare al nazismo. Ed ecco, conseguentemente, il «muro» fra lui e i suoi colleghi connazionali allineati e coperti, i quali arriveranno ad accusarlo, senza alcun fondamento, di plagio, guardacaso per il suo libro più chiaramente «eretico» nei confronti del regime: Una tomba per Boris Davidovic.
E ancora. Facendo la spola fra Belgrado e Strasburgo, Bordeaux, Lille in qualità di lettore di letteratura e lingua serbocroata, negli anni Settanta e Ottanta, l’involontario ebreo errante Kiš si trovò di fronte un nuovo «muro», quello costruito dagli intellettuali di sinistra con fette di salame sugli occhi e tappi nelle orecchie per nascondere la scomoda verità che stava venendo a galla nella palude della comunicazione fra Est e Ovest. Infine, l’ultimo «muro» fu messo in piedi da una certa critica militante contro chi, ormai di fatto parigino, non essendo homo politicus, ma semplicemente poeticus, non si prestava a essere arruolato come latore di qualsivoglia «messaggio». «La prosa comincia là dove finisce il messaggio», dichiarò in un’intervista. Rincarando la dose, qualche tempo dopo: «I libri sulle minoranze mi fanno orrore», e con ciò condannandosi al rango, nobilissimo ma ingrato, di minoranza individuale.
Per riparare alla dimenticanza di cui dicevamo all’inizio, ci vengono in soccorso le ultime pagine di Kiš, emerse dal buio di qualche cassetto e della morte, curate dalla sua ex moglie Mirjana Miocinovic e risalenti al periodo ’80-86. Il liuto e le cicatrici (pagg. 158, euro 13, traduzione di Dunja Badnjevic), edito da Adelphi come tutte le sue opere tranne I leoni meccanici, pubblicato da Feltrinelli nel ’90, comprende sei racconti e un breve scritto strettamente imparentati con l’ultimo libro di Kiš, Enciclopedia dei morti, uscito da noi nell’83. Come in quella raccolta e come nel citato Una tomba per Boris Davidovic, si tratta di morti e vite esemplari, vite modellate su esistenze reali, storiche, ma poi, più che romanzate, sublimate a paradigmi di libertà e di destino. Vi troviamo, rivelate e insieme mascherate, le personalità del drammaturgo austriaco nato a Fiume Ödön von Horváth, del poeta ungherese Endre Ady, dello scrittore franco-ucraino Piotr Rawicz, dello scrittore e critico russo Andrej Donatovic Sinjavskij.
E soprattutto di Ivo Andric, l’autore di Il ponte sulla Drina e dei Racconti di Sarajevo, premio Nobel nel ’61, al primo posto nel pantheon letterario di Kiš anche per il pessimismo della ragione. Essere scrittore, dice Andric citato da Kiš in un’intervista del ’76, «significa mettere fra se stesso e gli altri una collina di carta stampata e una vera montagna di inesattezze e di malintesi». Del resto Danilo stesso aveva, del mestiere di scrivere, una visione “negativa” in senso fotografico: lo scrittore è come il simulacro di un’immagine, un fantasma. «Quando all’uomo non rimane altro, comincia a scrivere. La scrittura è un atto di disperazione, non di speranza. L’unico dilemma è se mettersi la corda al collo o mettersi a scrivere». La materializzazione di questo ectoplasma deve avvenire, secondo Kiš, seguendo la «Santissima Trinità» del «documento», della «confessione» e del «gioco dello spirito». Il «documento» è il fatto storico, la «confessione» è quella dell’individuo ritratto, il «gioco dello spirito» è lo sviluppo che ne segue. Nulla però a che fare con l’«insopportabile» romanzo psicologico.
Alla letteratura, pur essendo «malattia», spetta un compito titanico: «Credo che la letteratura debba correggere la storia: la Storia è generalità mentre la letteratura è concretezza. La Storia è numero, la letteratura è individualità». Lo si vede chiaramente nella splendida trilogia familiare composta da Giardino, cenere, Dolori precoci e Clessidra, con al centro la figura paterna, quell’E.S., quell’Eduard Sam (Sam in serbocroato significa «solo», «solitario») che ricalca fotograficamente in negativo il padre finito nell’inferno del lager. Malato, nevrastenico, alcolista, ebreo: «il personaggio ideale per la letteratura», chiosa Danilo. Per il quale, nonostante tutto, la chiave utile ad aprire ogni pagina e ad abbattere tutti i “muri” si chiama «ironia».