il Giornale, 5 dicembre 2014
La mia vita senza Olindo. Incontro con Rosa Bazzi. In carcere passa le sue giornate pulire pavimenti e a fare cache-col da vendere al mercatino di Bollate. Il marito? Lo vede una volta ogni sette giorni
«Niente fotografie, per favore, me ne hanno già fatte abbastanza...». La donna è piccolina, capelli grigi, un desiderio di bellezza. Civettuola, mentre si sottrae allo scatto. È strano vedere questa femminilità sfuggente sopravvivere dietro le mura di un penitenziario, anche se Bollate è uno di quei rari luoghi del nostro Paese non inseguito dagli anatemi di Amnesty International: è un carcere modello. Incontro questa signora in mezzo ad altre detenute che la trattano con aria confidenziale. La chiamano Rosa. Io sono a Bollate per le nuove macchine da cucire regalate per ridare un lavoro a donne che hanno commesso crimini a volte terribili. Ha una dolcezza amara conoscerle di persona nella grande sartoria, dove confezionano abiti, grembiuli e borse con il marchio di Bollate, che è anche spiritoso: si chiama «Gatti galeotti». Sembrano serene, vogliono esserlo.
Rosa ha l’aria inserita, quasi da leader. Comincia a seguirmi, forse realizza che non l’ho riconosciuta, la famosa Rosa Bazzi che si sottrae all’obiettivo, la parte femminile della coppia di assassini più efferati e affiatati della storia recente. «Ma lei chi è? Perché è venuta?». È lei a fare le domande. «Sono una giornalista, volevo visitare il carcere e le persone detenute», rispondo. Mi cerca: «Venga, le faccio vedere il laboratorio dove realizziamo i cache-col».
Cache-col, non banali sciarpe o scalda collo. Ripensi alla testimonianza di Rosa Bazzi, come aveva raccontato di aver preso per la testa e tagliato la gola del piccolo Youssef, otto anni fa. E lo scalda collo cucito da quelle mani diventa il mistero del bene e del male: riscrivere ciò che è stato e non si può cancellare, tessere lana dove hai strappato vita. Sconvolge quel confronto tra le mani assassine e le dita che oggi lavorano per cucire ciò che è caldo e avvolgente. Sciarpe. Esiste irrisione nella scelta di mostrare lo scalda collo? La speranza è che no, che la domanda sia cattiva e sbagliata.
È la lingua di Rosa che batte dove il cuore duole? Solo interrogativi. E le risposte appena desiderate. Pochi minuti nel laboratorio, tra oggetti che desiderano competere per il grande evento del 13 dicembre, il Mercatino di Natale di Bollate che è una delle giornate più importanti dell’anno, quando le detenute mettono in mostra quel che sanno fare. Anche io scelgo una sciarpetta marrone con un nastrino crema: scarna ma leziosa. «Chi l’ha fatta?», chiedo. «Rosa», mi risponde una delle donne. Rosa annuisce, mette il braccio sulla spalla della compagna sudamericana, «ma lei è molto più brava». Rosa Bazzi, con il marito Olindo Romano, è stata giudicata colpevole fino al terzo grado, in Cassazione, di una strage agghiacciante. Scorre nella memoria come un film dell’orrore. A Erba, l’11 dicembre 2006, la coppia ha ucciso a colpi di coltello e spranghe Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la nonna del bambino Paola Galli, e la vicina di casa Valeria Cherubini. Il marito di lei, Mario Frigerio, si è salvato perché creduto morto. Dopo la strage, hanno incendiato l’appartamento. I vicini di pianerottolo li infastidivano. È un motivo anche solo pensabile per uccidere? Ammesso che ne esistano, per uccidere. Pochi mesi fa, nell’agosto scorso, è finito il periodo di isolamento di Rosa e Olindo. Olindo è a Opera. Rosa, che si è battuta per stare nello stesso carcere, è qui a Bollate, dove le porte delle celle sono aperte tutto il giorno, fino alle otto di sera, nella speranza che le relazioni umane aiutino a imparare un nuovo modo di vivere, lontano dalle violenze e dalle simbiosi malate.
Rosa Bazzi, oltre che la sarta, fa i lavori pesanti: le pulizie del pianterreno di questo grande edificio dai corridoi lunghi e le sale spesso impegnate dai colloqui o dalle letture. Va di spazzolone, perché il carcere di Bollate non ha, non le dà una macchina. Scopa e lava, tiene puliti gli spazi comuni.
Un contrappasso inquietante, da condominio. Quando mi guarda con gli occhi che la reclusione non ha spento, quando capisco chi è questa Rosa che mi segue, non posso non pensare a tutto quel sangue, a lei che accusava il tunisino Azouz, il primo accusato della strage, di avere tentato di sedurla. È una donna che tiene ancora ad essere donna. Ogni settimana viene accompagnata a Opera per incontrare il marito Olindo. Fa impressione pensare a quel che racconta la direttrice aggiunta di Bollate, Cosima Buccoliero: «Le donne vivono il carcere molto peggio degli uomini. Gli uomini non vengono abbandonati dalle compagne. Qui la gran parte delle donne è abbandonata a se stessa. Eppure spesso le donne diventano delinquenti per iniziativa del proprio uomo. Poi, quando vengono arrestate, sono anche abbandonate».
Un destino solitario e finale che non sembra aver toccato Rosa Bazzi. Lei ha ancora il suo uomo da cui va in visita, mentre le sue compagne della tessitura sono sole. Lavorano, soffrono, inventano strade. Forse espiano la pena in profondità più dure e insondabili. «Crede nella redenzione? La vede?», chiedo alla dottoressa Buccoliero. «In senso religioco non so. Credo nel cambiamento umano: l’ho visto operare. Persone che cambiano in carcere. Se poi ritornano nel proprio ambiente, senza occupazione, non ricadere è difficile. Oggi il problema del lavoro è enorme», spiega la direttrice.
Rosa Bazzi ostenta energia da sindacalista. «Ci serve una macchina da cucire, questa è dei tempi di mia nonna» dice indicando un apparecchio di altre epoche di legno ondulato. Forse vorrebbe essere più elegante che con quel maglione grigio sui pantaloni della tuta blu. Abbigliamento dimesso, ma non sciatto. si frena, teme di apparire antipatica: «Ma non importa, qui lavoriamo con l’uncinetto la lana». Chissà se si è accorta che anch’io, digiuna di cronaca nera, intanto ho capito che lei non è solo Rosa. È quella Rosa. È Rosa Bazzi.