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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

Il metodo Renzi per scegliere il successore di Napolitano: due giorni dopo le dimissioni ci sarà un’assemblea dei grandi elettori del Pd per concordare il profilo del futuro capo dello Stato. Poi un “comitato” incontrerà gli altri gruppi. Senza accordo, dal quarto scrutinio il piano prevede di votare il proprio candidato

C’è un piano, un metodo se si vuole, che Renzi ha in mente di adottare quando arriverà il giorno X. Il giorno delle dimissioni del capo dello Stato. Fino ad allora il capo del governo non ha intenzione di dire una parola a nessuno. Nomi, trattative, rose, ipotesi di successione resteranno lontani dai suoi colloqui per non farsi irretire in un gioco che potrebbe far saltare il programma di riforme messe in campo. Quel giorno però si avvicina. Tutti i partiti si stanno preparando all’inizio della grande corsa e la convinzione, nei palazzi che contano, è che la fine del mandato presidenziale arrivi tra il 22 gennaio e il 2 febbraio.
Dunque, il piano di Renzi sta prendendo corpo. Il premier non si farà trovare impreparato. La mossa d’apertura, due giorni dopo le dimissioni, sarà la convocazione dell’assemblea congiunta dei Grandi Elettori del Pd: deputati, senatori e delegati regionali. «Chiederò a tutti – anticipa ai suoi – di non fare dei nomi ma di concentrarsi sull’identikit del prossimo presidente della Repubblica». Non è difficile immaginare che, da un’assemblea di esponenti di partito, il profilo che emergerà sarà quello di un politico a tutto tondo. Un politico/ a del Pd o di area dem. Dunque dalla riunione usciranno i connotati del capo dello Stato. A quel punto Renzi farà un passo indietro. «Nominerò un comitato, proseguiranno loro». Il comitato sarà composto dal vicesegretario Lorenzo Guerini, dal presidente del partito Matteo Orfini e dai capigruppo Luigi Zanda e Roberto Speranza. «Saranno loro a incontrare gli altri partiti, di maggioranza e d’opposizione. E in quegli incontri sottoporranno l’identikit uscito dalla nostra assemblea».
L’obiettivo di Renzi è di centrare l’elezione al primo scrutinio grazie a un accordo largo. È il metodo De Mita, che funzionò con Cossiga nell’85 e con Ciampi nel ‘99 (grazie a Veltroni). E tuttavia non sarà semplice mettere d’accordo Berlusconi da una parte e i 5 Stelle dall’altra sullo stesso nome. Il primo a esserne consapevole è il capo del governo. E l’ex Cavaliere, per quanto voglia essere della partita, non può accettare qualsiasi cosa. «Da Renzi – ha dichiarato ieri in un’intervista all’ Huffingtonpost – mi aspetto un percorso di condivisione che consenta al paese di avere un capo dello Stato che non sia espressione solo della sinistra, come è stato con gli ultimi presidenti, ma sia una figura di garanzia per tutti gli italiani». Se i più dentro Forza Italia leggono questa dichiarazione come uno stop a Romano Prodi, tra i democratici si esclude ormai anche la candidatura di Giuliano Amato, “bruciato” dallo stesso leader forzista con un endorsement prematuro e imbarazzante.
E si torna al metodo Renzi. Se il comitato dei saggi dem dovesse rientrare alla base senza un’intesa solida, scatterebbe la fase due del piano. Per le prime tre elezioni, quelle nelle quali è richiesto il quorum dei 2/3 dell’assemblea, il Pd riceverebbe l’indicazione di votare scheda bianca. O al limite un candidato di bandiera. Trascorrerebbe così la prima settimana, durante la quale i vari giocatori avrebbero un’ultima possibilità di stringere un patto. Dalla quarta votazione in poi, quando basterà la maggioranza assoluta dei 1008 Grandi Elettori, scenderà in campo personalmente il capo del governo. «A quel punto il mio sforzo sarà quello di imporre il nostro candidato – ha rivelato Renzi in queste ore – e potrò contare su circa 450 dei 505 voti necessari». Un calcolo che mette insieme deputati, senatori e delegati del Pd. Una massa d’urto impressionante, grazie alla quale, con un piccolo aiutino di una forza medio-piccola – Area popolare? Dissidenti grillini? Ex montiani? – eleggersi da solo il presidente della Repubblica.
Che la tentazione di autosufficienza nasconda una minaccia è evidente a tutti. I numeri sono quelli. E tuttavia, affinché la pistola sia realmente carica, quei 450 voti devono esserci realmente. Visto il precedente dei 101, è legittimo il dubbio. Insomma, prima che si apre la Grande Corsa, il segretario del Pd deve assicurasi che le sue retrovie e le sue linee di approvvigionamento siano solide. Per un gioco di forza quale quello che ha in mente dal quarto scrutinio, non sono ammesse defezioni della minoranza dem. Anche per questo negli ultimi giorni si moltiplicano i contatti e i segnali di pace tra i renziani e la minoranza dialogante dei bersaniani. Un terreno di incontro potrebbero essere proprio la legge elettorale e la riforma costituzionale. Come segnale di buona volontà, la minoranza Pd ieri in commissione Affari costituzionali ha ottenuto un primo piccolo risultato. È riuscita, dopo due giorni di discussione e riunioni con il ministro Maria Elena Boschi, i relatori Emanuele Fiano e Francesco Paolo Sisto, a far passare un emendamento che toglie al presidente della Repubblica il potere di rinviare e quindi di promulgare parti di leggi. Ma la sostanza si misurerà sulla capacità dei bersaniani di ottenere un cambiamento dell’Italicum 2.0 riguardo alle preferenze. Si parla nuovamente di un listino bloccato del 30%, che potrebbe far sostituire i capolista blindati concordati con Berlusconi. Per ora si tratta di ipotesi ma il fatto stesso che circolino, a dispetto dell’accordo del Nazareno, dimostra che la situazione interna al Pd è fluida.
Quanto alla tenuta di Forza Italia, divisa tra fittiani e berlusconiani, per Renzi resta ancora un mistero. Non è servito il pranzo della pace di ieri a palazzo Grazioli ad appianare le differenze tra l’ex Cavaliere e Fitto, soprattutto riguardo alla legge elettorale e al Quirinale. I fittiani comunque pensano debba essere un politico il prescelto per il Colle. «Anche se il potere egemone oggi è quello economico e tutto farebbe pensare a un banchiere come Draghi – osserva il fittiano Saverio Romano – la politica ha una sua specifica competenza. Serve qualcuno che abbia queste skills. Potrebbe essere Casini, lui le possiede. Ma finora si è giocato male il rapporto con Berlusconi».