la Repubblica, 5 dicembre 2014
Una straordinaria intervista a Elena Ferrante, la scrittrice senza volto: «Se scoprite chi sono mollo tutto». I trionfi americani, l’anonimato come scelta definitiva, il terrore di perdere «questo spazio creativo anomalo»
«Cara redazione, ci deve essere stato un equivoco. “Metterci la faccia” era in sintesi un ipotetico articolo sul presidente del Consiglio. Politica, insomma, che aveva poco o niente a che fare con le mie scelte di autrice assente. Ma pazienza, devo dire che alla fine mi ha fatto ugualmente piacere rispondere. Grazie, Elena Ferrante». Dagli equivoci possono nascere tante cose, anche una singolare intervista.
In un primo momento doveva essere un articolo scritto dalla Ferrante sul tema da lei stessa suggerito: “Metterci la faccia”. Dato il mistero della sua identità, amplificato dal successo planetario, l’intervento ci è sembrato opportuno e inequivocabile. Poi però la Ferrante non ha potuto scrivere il suo articolo, così è subentrata la formula dell’intervista che ne ha ereditato l’angolatura: presenza/assenza di un autore nella società dello spettacolo, le ragioni di una sottrazione tenacemente difesa per vent’anni.
Domande e risposte scritte, senza possibilità di interlocuzione. Un patto felicemente accolto, che oggi scopriamo fondato su un fraintendimento. Ben vengano gli equivoci. Solo qualche dubbio sulle certezze dell’autrice. Sarà vero che alle lettrici nulla importi della sua identità? La biografia di uno scrittore è davvero così irrilevante? Il mondo dei media è soltanto un’orda di analfabeti indemoniati? Forse le cose sono un po’ più complicate, ma a una grande scrittrice è consentito tutto, anche risposte tranchant.
La rivista americana Foreign Policy l’ha inclusa tra le cento personalità più influenti al mondo per la sua «capacità di raccontare storie vere e oneste». Lei come spiega «la febbre Ferrante»?
«Sono contenta soprattutto perché Foreign Policy mi attribuisce con qualche generosità il merito di aver dimostrato che il potere della letteratura è autonomo. Quanto al successo dei miei libri, ne ignoro le ragioni, ma non ho dubbi che vadano cercate in ciò che raccontano e in come lo raccontano».
Oltre vent’anni fa lei scriveva: «Io credo che i libri non abbiano bisogno dei loro autori. Se hanno qualcosa da raccontare, troveranno presto o tardi dei lettori». Non ritiene che quella scommessa sia stata vinta e che dunque i suoi libri non abbiano più bisogno dell’anonimato?
«I miei libri non sono anonimi, hanno tanto di firma in copertina e non hanno mai avuto bisogno dell’anonimato. È successo semplicemente che li ho scritti e poi, sottraendomi alla prassi editoriale comune, li ho messi alla prova senza alcun patrocinio. Se qualcuno ha vinto, hanno vinto loro. È una vittoria che testimonia la loro autonomia. Si sono guadagnati il diritto di essere apprezzati dai lettori proprio in quanto libri».
La scelta di sottrazione non si trasforma nel suo contrario? Il mistero suscita curiosità, l’autore diventa così Personaggio.
«Temo che queste considerazioni riguardino solo la cerchia ristretta di quelli che lavorano nei media. Che, a parte le solite eccezioni, per lo più hanno troppo da fare e sono o non lettori o lettori frettolosi. Fuori del circolo mediatico il mondo è ben più vasto e le attese sono altre. Per capirci, il vuoto che ho lasciato di proposito, lei, volente o nolente, per mestiere e a prescindere dalla sua sensibilità di persona colta, si sente chiamata a riempirlo con una faccia, mentre i lettori lo riempiono leggendo».
È davvero convinta che il vissuto di un autore non aggiunga niente? Italo Calvino si sottraeva alle domande personali, però sappiamo molto di lui e del suo lavoro editoriale.
«Calvino mi suggestionò molto, da ragazzina, con una sua dichiarazione. A occhio e croce diceva: chiedetemi pure della mia vita privata, io non vi risponderò o vi mentirò sempre. Ancora più radicale mi è sembrato in seguito Northrop Frye che dice: gli scrittori sono persone piuttosto semplici, in linea di massima né più saggi né migliori di chiunque altro. E continua: importa di loro ciò che sanno fare bene, incatenare parole; Re Lear è meraviglioso anche se di Shakespeare ci restano soltanto un paio di firme, alcuni indirizzi, un testamento, un certificato di battesimo e un ritratto che raffigura un uomo che ha tutto l’aspetto di un idiota. Beh, io la vedo esattamente così. Le nostre facce, tutte, non ci rendono un buon servizio e le nostre vite non aggiungono niente alle opere».
Se lei rivelasse la sua identità, verrebbe meno la curiosità. Non pensa che perseverare nel mistero rischi di renderla complice?
«Mi permette di risponderle con un’altra domanda? Non pensa che se facessi come lei dice tradirei me stessa, la mia scrittura, il patto che ho fatto coi miei lettori, le ragioni mie che essi hanno praticamente sostenuto, persino il modo nuovo secondo cui hanno finito per leggere? Quanto alla mia complicità si guardi intorno. Non vede la ressa che c’è sotto Natale per andare in tv? Parlerebbe ancora di complicità se in questo momento fossi in prima fila davanti a una telecamera, o lo troverebbe semplicemente normale? No, dire che l’assenza è complicità è un gioco vecchio e scontato. Quanto alla curiosità morbosa, mi sembra anch’essa solo una pressione del meccanismo mediatico volta a rendermi più che complice, incoerente».
Le pesa vivere nella dissimulazione?
«Non dissimulo alcunché. Vivo la mia vita, e chi è parte di essa sa tutto di me».
Ma come si fa a vivere nella menzogna? Lei rivendica l’anonimato anche per proteggere la sua vita. Ma cosa c’è di più condizionante – nella vita di una persona – del segreto intorno al suo lavoro?
«Scrivere per me non è un lavoro. Quanto alla menzogna, beh, tecnicamente la letteratura lo è, è uno straordinario prodotto della mente, un mondo autonomo fatto di parole tutte volte a dire la verità di chi scrive. Sprofondare in questo particolare tipo di menzogna è un gran godimento e una faticosa responsabilità. Quanto alle vili bugie, mah, in genere non ne dico a nessuno, se non per scansare un pericolo, per proteggermi».
La quadrilogia dell’Amica geniale diventerà una serie tv, affidata a Francesco Piccolo. Cosa si aspetta?
«Mi aspetto che i personaggi non si semplifichino e che il racconto non si impoverisca e non venga stravolto. La collaborazione con chi lavorerà alle sceneggiature, se ci sarà, avverrà via mail».
L’anonimato in un’epoca di esposizione totale ha qualcosa di eroico, ma ora il successo non le imporrebbe di «metterci la faccia»?
«Il nostro presidente del Consiglio usa spesso questa espressione, ma temo che serva più a nascondere che a svelare. Il protagonismo fa questo: nasconde, non svela, trucca la prassi democratica. Sarebbe bello invece che non tra qualche mese o anno ma ora potessimo valutare con chiarezza cosa ci viene apparecchiato ed evitare disastri. Invece abbiamo non opere da esaminare ma facce, che fuori dal clamore televisivo sono per loro natura tutte come quella dello Shakespeare di Frye, sia che abbiano scritto Re Lear, sia che ci abbiano imbonito il Jobs act. Io, successo o no, della mia so abbastanza per decidere di tenermela per me».
La sua amica editrice Sandra Ferri è persuasa che se la sua identità venisse scoperta lei non riuscirebbe più a scrivere.
«Alla mia amica Sandra dico un mucchio di cose tutte vere. Devo solo precisare che parlavo di pubblicare, non di scrivere. E poi voglio aggiungere che qualcosa è cambiato. All’inizio mi pesava l’ansia per ciò che raccontavo. Poi si è sommata presto la piccola polemica contro ogni forma di protagonismo. Oggi la cosa che temo di più è la perdita dello spazio creativo del tutto anomalo che mi pare di aver scoperto. Non è poco scrivere sapendo di poter orchestrare per i lettori non solo una storia, personaggi, sentimenti, paesaggi, ma la propria figura di autrice, la più vera perché fatta di sola scrittura, di pura esplorazione tecnica di una possibilità. Ecco perché o resto Ferrante o non pubblico più».