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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

La rivoluzione culturale della Cina di Xi Jinping: artisti nelle campagne. Registi e scrittori spediti a reimparare i valori socialisti. Il presidente ripercorre le orme di Mao. Tornano ad essere obbligatorie nelle scuole le lezioni di patriottismo

Quando il partito spedisce intellettuali e artisti nelle campagne, in Cina suona l’allarme. In queste ore a Pechino quella sirena squilla. Che il presidente Xi Jinping ripercorra la strada di Mao Zedong, lucidando il culto della personalità nella Città Proibita, è un dettaglio che per adesso toglie il sonno solo ai vertici comunisti. Lo spettro di una nuova Rivoluzione culturale, con campagne correttive di massa, spaventa invece sia quanti sono sopravvissuti alle Guardie Rosse sia i loro figli costretti oggi nelle metropoli dei consumi.
Non siamo ancora alla tragedia del decennio della gogna ideologica collettiva, concluso nel 1976. I templi buddisti non vengono incendiati, i professori non sono costretti in ginocchio nei cortili delle università, i figli non fanno impiccare i padri. Per la prima volta però, a quasi quarant’anni dal processo alla Banda dei Quattro, il potere torna a inviare in aree rurali e regioni popolate dalle minoranze etniche coloro che, per mestiere, usano il cervello in modo, se non autonomo, quantomeno pericolosamente creativo. I funzionari che governano censura e propaganda hanno spiegato che artisti, registi e star della tivù «dovranno vivere tra le masse agricole per formarsi una corretta visione dell’arte e creare più capolavori».
Rispetto al 1966 è già un passo avanti: allora il Grande Timoniere, come terapia, prescrisse ai più “lavoro di zappa”. Xi Jinping, più cosmopolita e dotato del talento per il glamour, non pretende che pittori e scrittori affondino i piedi nelle risaie. Ma che l’ intelligentia la smetta di «inseguire la popolarità con opere volgari» o di «scimmiottare stravaganze occidentali». Diagnosi inappellabile, prescrizione semplice. Chi oggi in Cina vive nel mondo di cultura, arte, spettacolo e tivù, nei prossimi mesi dovrà trascorrere «da 30 a 90 giorni in villaggi, aree delle minoranze e di confine», ossia nelle zone che «hanno maggiormente contribuito alla vittoria della guerra rivoluzionaria».
Il “nuovo Mao”, profeta del “sogno cinese”, nemmeno si preoccupa di camuffare l’operazione di re-indottrinamento. L’editto sulla «riscoperta della purezza delle fonti socialiste» il discorso che, a fine ottobre, aveva scosso un popolo allenato a stare con le orecchie aperte. «Gli artisti – aveva avvertito Xi Jinping – non devono diventare schiavi del mercato e puzzare di soldi, come gli uomini di cultura non devono formarsi senza la guida della politica». La memoria di tutti è corbolo sa al proclama di Mao del 1949, che teorizzò «la funzione dell’arte come servizio al partito». Prima un presentimento, ora la conferma.
I prescelti per la cura rossa partiranno a scaglioni di cento, selezionati dall’Amministrazione statale per i media. Divisi tra «villaggi rurali, luoghi-simsegue per lo spirito del partito e miniere» dovranno «fare studi sul campo ed esperienze di vita». Nella realtà la Cina rurale viene sistematicamente distrutta, le minoranze sono colonizzate, le miniere sono cimiteri di morti sul lavoro e gli artisti indipendenti, come Ai Weiwei, finiscono arrestati. L’idillio medievale delle campagne di Mao non corrisponde all’orrore postindustriale dei deserti senza vita ereditati da Xi Jinping. Anche i conduttori di tg più adulatori e i registi più nostalgici in queste ore si chiedono: che cosa mai dovremmo trovare di tanto stimolante nelle periferie devastate di un impero che non c’è più? Non si concentrano oggi più assurdità e più disperazione in un centro commerciale di Shanghai o in una fabbrica hitech del Guangdong? Il messaggio del potere però è chiaro: il decennio d’oro della contaminazione e della neo-colonizzazione cinese è finito, si riapre l’era di ortodossia socialista e tradizioni confuciane.
In attesa delle prime comitive di intellettuali verso Tibet e Mongolia Interna, il solo autorizzato a parlarne apertamente è stato il Nobel per la letteratura Mo Yan. Premiato a Hong Kong, e opponendo un ostinato silenzio alla repressione in corso contro la rivolta degli studenti democratici, ha invitato i connazionali ad «abbandonare la contaminazione occidentale e il luoghi comuni della scrittura straniera» per «ritrovare l’originalità del nostro cuore». L’autore di Sorgo Rosso ha confessato che gli elegiaci campi descritti erano «un inferno di zanzare e pesticidi» e ripetuto la metafora delle due fornaci. «Garcia Marquez e Faulkner – ha detto – erano per noi cubetti di ghiaccio come due immense fornaci roventi. Siamo sopravvissuti solo perché costretti a restare lontani da loro». È il discorso di un genio, ma tradotto da Pechino si risolve nell’ordine di una logorata via patriottica alla creatività.
«Anche i confini ideali – ha sottolineato ieri la tivù di Stato – sono segnati sulla carta geografica». Offensiva strategica, a partire dalle scuole. Il contaminante calcio obbligatorio resta una promessa, in omaggio agli sponsor che già fantasticano sulla «nuova super-potenza del pallone», mentre il “patriottismo” diventa la dura quotidianità di una materia che farà media. Gli asini in Libretto Rosso saranno bocciati perché «i giovani vanno riconquistati», ma pure ricattati, con il profumo della carriera d’oro. Sembra la cupa Cina post-imperiale di Lin Biao. È quella scintillante dell’e-commerce di Jack Ma.