la Repubblica, 5 dicembre 2014
Tra turpiloquio, enfasi, verbi troncati di un romanesco contaminato da “aziendalese”: così si esprimono gli uomini del clan della Mafia Capitale. “Sordi”, “stecche” e “strisciate”
«Piglia’», «paga’», «guadagna’», «compra’», «prosciuga’», oltre naturalmente a «rubba’», tutto questo in linea di massima «pe’ sistemasse», ma forse il proposito è soltanto un auto-inganno e ogni dialogo corrisponde in realtà a una concezione piuttosto elementare e famelica dell’esistenza.
Sia come sia, gli abitanti del «mondo di mezzo», espressione di controversa derivazione tolkeniana, troncano i verbi all’infinito, come succede a Roma, usano pochissimi aggettivi, vanno al sodo, all’osso, con il che dalle intercettazioni viene fuori una lingua sostanzialmente selvatica, predona.
Che tuttavia, nel mentre si avvicina alle istituzioni, per così dire, si fa ambigua, sfuggente, perciò banditi e faccendieri si ritrovano e si riconoscono l’un l’altro nella comune condizione di «campà de politica», e allora occorre «da’’ na mano», «da’ ‘ na spinta», «tene’ in caldo», «crea’» o «chiude un quadro», come pure «bussacchia’», cioè andare a bussare nelle anticamere, pratica per molti versi necessaria, ma per alcuni dei protagonisti assai mortificante.
Gli uomini veri, infatti, quelli potenti, non devono nemmeno chiedere. Il rispetto gli è dovuto dalla loro storia, anche criminale. E i «sordi» pure, secondo logiche di accumulazione abbastanza primordiale. È comunque un mondo straordinariamente maschile, in questo quasi irreale, quello che viene fuori dalle carte, per ora non c’è nemmeno una donna che parli, giusto un paio di segretarie che dicono «buongiorno».
Dalle frasi e dalle parole si capisce che i protagonisti adorano il comando e giocano sui suoi effetti primari, tra cui incutere paura. Ma in questo, sia pure imbastardito, il romanesco dell’inchiesta mafia-capitale ondeggia irrimediabilmente tra l’enfasi («gli faccio caca’ sangue», «o famo strilla’ come un’aquila sgozzata»), l’automatico turpiloquio («li mortacci»), la classica meraviglia infantile («mamma mia!») e la consueta ricaduta nella commedia. Notevole a questo proposito lo «scherzo» che il cooperatore sociale Buzzi riferisce di aver rivolto a uno che traccheggiava o faceva finta di non capire: «Gli ho parlato in francese stretto e gli ho detto: “Senti, o è sì o è no: non ce poi rompe er cazzo così, eh!».
Così come ricorrono – e non si direbbe per delicatezza d’animo – le bestemmie cosiddette di secondo grado ovvero camuffate: oltre ai classici «porco due» e «mannaggia alla madosca» si ritrova un inconsueto «mannaggia alla madoro». Per non dire della fuga, anch’essa tutta romana, verso l’indeterminatezza, donde la frequenza di «coso» e di «cosi» e la menzione, probabilmente riferita a un dispositivo anti- intercettazioni, designato «il fregno».
Per il resto, se il gangster neofascista Carminati pare decisamente a suo agio con il gergo della malavita aggiornato e corretto (il telefono intercettabile è detto «storto», le chiavi false «pongate», le tangenti «stecche», i debiti «strisciate» e per dire che lui e i complici si sono lasciati arrestare usa «se semo fatti beve»), è anche vero che nel suo complesso i confini tra la lingua in uso nelle carceri e quella della politica paiono davvero labili, come se nell’inchiesta le sedi deputate e la strada si fossero unificate anche a livello lessicale.
Di più: la lingua di mezzo rispecchia con suprema evidenza l’immiserimento e il degrado del potere. E peggio: parole e frasi danno la misura della più definitiva scomparsa di qualsiasi idealità, la desertificazione di ogni progetto collettivo. In pratica il nulla o quasi – là dove quel pochissimo che rimane trova immediato riferimento al mondo della prostituzione: «Mettiti ‘ a minigonna e vai a batte...», in tal modo Carminati incoraggia il suo compare a sedurre i successori di Alemanno Del resto il «Cecato» chiama spesso gli interlocutori «compa’», che dati i trascorsi del soggetto non sta certo per «compagno». Mentre al telefono i comprimari si salutano ilari: «Mister!», «Grande!», «Bello!», «Maestro!». L’abbondanza di soprannomi – alcuni anche vivaci: «er Cicorione» e «Kapplerino», ad esempio, più scontati «er Cane» e «er Mandrillo» – denuncia la dimensione sempre più chiusa dei circuiti, un giro ormai così stretto da certificare il tribalismo.
Si direbbe che questo abbia indebolito qualsiasi fantasia ed energia popolaresca, limitata alla comparsa di una figura immaginaria quale «Fraccazzo da Velletri». Ogni tanto si capisce che qualcuno fa il moderno o lo spiritoso. Il giovane Gramazio, per dire, a proposito dell’azienda dei rifiuti, in sigla Ama, proclama: «Lassù qualcuno ci Ama»; come pure il troppo pratico Buzzi vanamente si sbilancia: «Tutto under control». Non solo non c’è nessuno che faccia ridere, ma tutti sono talmente preoccupati di arraffare entrature, quattrini e commesse che finiscono per assomigliare l’uno all’altro – a parte forse Gramazio senior che a un certo punto riconosce di essere «rincojonito».
In realtà, questo mondo di bande voraci esprime un linguaggio spurio e contaminato. Solo in fondo si avverte l’ombra remota del vecchio politichese. Ben più determinanti paiono gli influssi dell’aziendalese, del giornalese («emergenza-neve», «te do una news»), dell’universo del tifo (l’immancabile «squadra»), della pubblicità («l’uomo del monte ha detto sì»).
Con qualche malizia pare anche di cogliere l’eco di edulcorazioni di derivazione meta-berlusconiana, tra cui spicca l’uso del termine «carinerie». Un discorso a parte merita le denominazione delle attività del mondo di mezzo: l’onlus «Piccoli passi», per dire, o «Il Sorriso». Qui la Grande Menzogna appare per una volta nuda e senza pudore – e la speranza è che almeno a questo servano le inchieste e quel che ne deriva.