Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2014
Il pareggio di bilancio è il vero problema, è ora di ripensarne l’utilità. Nessun Paese ha mai adottato questo principio per uscire da una recessione
Il pareggio di bilancio è il vero problema da affrontare. Uno dei temi più dibattuti dopo la presentazione del DEF 2015 è quello relativo ai criteri di misurazione del PIL potenziale da cui discende la determinazione dell’output-gap, sulla base del quale viene poi stabilita la distanza che ci separa dal raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale.
A riguardo è opportuno fare alcune riflessioni.
Nel corso dell’esplosione della crisi dei debiti sovrani del 2011 il Governo Berlusconi, spinto fortemente dalla governance europea e dalla fortissima tensione sui titoli di Stato italiani, assunse l’impegno di conseguire il pareggio di bilancio contabile (deficit zero) entro il 2014, poi anticipato dallo stesso governo al 2013. In quella fase, il deficit si attestava intorno a 60 miliardi di Euro, circa il 3,8% del PIL, uno dei livelli più bassi d’Europa. Questo obiettivo è stato perseguito con ancora maggiore energia e convinzione dal Governo Monti ma non è stato finora conseguito, anzi il suo raggiungimento anche nel prossimo futuro risulta altamente improbabile, a causa della potente carica distruttiva sul PIL contenuta nelle stesse manovre messe in campo in quel periodo per realizzarlo che non ha reso possibile acquisire neppure il pareggio strutturale.
Prima della crisi del 2008-2009, nessun paese del mondo occidentale aveva mai adottato il principio del pareggio di bilancio, facendolo assurgere a rango costituzionale, per uscire da una fase depressiva del ciclo.
Occorre segnalare peraltro che sei premi Nobel per l’economia (Kennet Arrow, Peter Diamond, Charles Schultze, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow) il 28/07/2011 rivolsero un accorato appello al presidente Obama contro il “budget balanced each year” reputandolo estremamente deleterio per l’economia. Noi invece non abbiamo avuto tentennamenti sulla sua validità, nell’aprile 2012 la regola è stata inserita in costituzione con una maggioranza bulgara al Senato e nessun voto contrario alla Camera.
Assumere quell’impegno con un consenso così vasto, in un contesto di crisi di rara intensità, significava comunicare a tutti gli stakeholders dell’economia italiana: famiglie, imprese nazionali ed estere, investitori domestici e internazionali e a tutta la comunità economica e finanziaria che l’Italia avrebbe adottato per un lungo periodo politiche fiscali ultrarestrittive generando così aspettative di un quadro prospettico molto deprimente che si andava a sovrapporre ad un complesso di debolezze diffuse riveniente dalla grande recessione del 2009 che aveva già traumatizzato non poco il paese. Il risultato che sarebbe scaturito poteva pertanto essere uno solo: un crollo dei consumi, degli investimenti, una perdita generalizzata di ricchezza e un inizio di una nuova spirale depressiva difficilmente arrestabile.
Il quadro d’insieme che ne è derivato è oggi inconfutabile: il nostro paese è in condizioni pessime; è in recessione ininterrotta da tre anni e le sue prospettive di sviluppo sono prossime allo zero.
In una tale situazione porci ora il problema se i criteri di calcolo dell’output-gap sono giusti o sbagliati per stabilire se si è raggiunto o meno il pareggio di bilancio strutturale è un approccio minimalista. Di quanto potrebbero cambiare le prospettive del paese se l’asticella si dovesse spostare di qualche decimale di punto in senso a noi più favorevole, cambiando la metodologia di calcolo? Al massimo otterremmo un alleggerimento dell’agonia che siamo costretti a sopportare. Ma non può essere questo l’obiettivo strategico e il livello di ambizione che un paese con le nostre dimensioni e i risultati negativi che continuiamo a registrare, dovrebbe porsi!
Il tema davvero rilevante da rivalutare ora, è quello di stabilire se questo principio che condiziona in modo cruciale il futuro della nostra nazione ha ancora un senso, oppure dobbiamo esorcizzare le paure e porre al centro del dibattito europeo l’essenza relativa alla sua effettiva validità ed utilità.
La strategia del pareggio contabile o strutturale da realizzare in ogni anno di gestione del bilancio pubblico mira essenzialmente a raggiungere l’obiettivo di frenare e/o bloccare la crescita del numeratore del rapporto Debito/PIL, per migliorare nel tempo questo indicatore; nel presupposto che il PIL nominale possa crescere e svilupparsi in forma indipendente dalle misure di consolidamento del bilancio, per effetto delle riforme strutturali e degli aiuti monetari che i governi e le autorità preposte mettono in campo. Una concezione priva delle più elementari basi logico-razionali. Nessun paese al mondo può crescere se tutti gli agenti nevralgici sono contemporaneamente orientati al ribasso: investimenti pubblici e privati, consumi pubblici e privati, credito bancario a famiglie e imprese, redditi disponibili e reddito d’impresa, dinamica dei prezzi e fiducia nel futuro. Allo stato attuale, senza stimoli fiscali davvero incisivi su ognuno di essi, a poco potranno le nuove iniezioni di liquidità che la Bce ha in programma di realizzare per sovvertire il nostro scenario così compromesso.