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 2014  dicembre 05 Venerdì calendario

Quella Turchia sempre meno europea. Negli ultimi anni è diventava sempre meno laica e la sua politica estera sempre più lontana dalle grandi linee di quella che le democrazie occidentali vorrebbero perseguire in Medio Oriente

A volte di fronte alle cose che leggo sulla stampa «occidentale», io, in quanto turco, rido a crepapelle. Il mondo occidentale, che per anni si è inventato di tutto per non far entrare la Turchia nel suo «Club» parlando delle proprie «radici», oggigiorno si lamenta del fatto che la Turchia si stia allontanando dall’Europa, dopo averla stancata, tra l’altro, con le sue menzogne e con i suoi doppi pesi e le sue doppie misure. Mi dica: se tutto questo non è ipocrisia che cosa altro può essere?
Suat Turan

Caro Turan,
A dispetto della posizione assunta da alcuni governi, più o meno esplicitamente contrari (soprattutto quelli di Austria, Francia e Germania), esisteva fino a tre anni fa una forte corrente di opinione che non aveva smesso di desiderare l’ingresso della Turchia nella Unione Europea e di considerarlo utile al futuro dell’Ue. Sapevamo che il Paese, dopo la fine della guerra fredda, avrebbe potuto scegliere fra due diverse direzioni: una più stretta partnership con l’Europa o un ruolo di leader nella grande regione medio-orientale, dal Mediterraneo al Caucaso e al Caspio. Ma speravamo che avrebbe scelto l’Europa perché ammiravamo il suo dinamismo economico e pensavamo che la sua secolare esperienza nell’area dell’Impero Ottomano avrebbe aiutato l’Ue a meglio vivere e collaborare con il mondo musulmano.
Se questa corrente di opinione si è considerevolmente rimpicciolita, la responsabilità è solo parzialmente europea. Nel 2012 il governo turco ha attribuito ai vertici delle forze armate la creazione di una rete segreta che si sarebbe preparata a rovesciare il governo con un colpo di Stato. Duecentotrenta ufficiali, fra cui una decina di generali, sono stati condannati a pene detentive da 13 a 20 anni, ma sono stati assolti dalla corte d’appello per mancanza di prove e scarcerati due anni dopo.
Nel maggio del 2013, il governo turco ha duramente represso le grandi manifestazioni di piazza Taksim contro la costruzione di un centro commerciale in un parco vicino. La protesta non era fondamentalmente diversa da quelle che vanno in scena in tutte le città occidentali, ma i metodi usati per disperdere i manifestanti sono stati particolarmente brutali. Qualche mese dopo, nel 2014, abbiamo assistito a uno sconcertante duello fra il primo ministro Recep Tayyip Erdogan e Fetullah Gulen, un imam che governa dagli Stati Uniti una sorta di confraternita composta da magistrati, poliziotti, maestri, professori, industriali, banchieri. Il duello ha acceso i riflettori su un sottomondo politico e affaristico a cui non era estranea, apparentemente, neppure la famiglia del primo ministro.
Erdogan ha superato brillantemente le elezioni amministrative dello scorso marzo ed è stato eletto alla presidenza della Repubblica il 1° luglio. Sappiamo che nelle prossime elezioni, previste per il 2015, spera di conquistare i due terzi del Parlamento: una vittoria che gli consentirebbe di cambiare la Costituzione e trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale. È un obiettivo legittimo, ma l’impaziente Erdogan non ha atteso le elezioni per modificare lo stile del potere e fare del primo ministro un collaboratore del capo dello Stato.
Tutto questo è accaduto mentre la Turchia diventava sempre meno laica e la sua politica estera sempre più lontana dalle grandi linee di quella che le democrazie occidentali vorrebbero perseguire in Medio Oriente. In Egitto, nella lotta tra la Fratellanza musulmana e il governo del maresciallo Al Sisi, Erdogan ha scelto la Fratellanza. In Siria, per non aiutare, sia pure indirettamente, i curdi e il regime di Bashar Al Assad, ha obiettivamente facilitato le operazioni militari dello Stato islamico. Spiace constatarlo, caro Turan, ma la Turchia è oggi meno europea di quanto fosse tre o quattro anni fa.