La Stampa, 5 dicembre 2014
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L’assalto alla spesa pubblica, dai rimborsi ai costi della politica passando per cosche attrezzate nello spremere guadagni. Corruzione e inefficienza, ecco cosa c’è dietro il declino del Paese. Lo scandalo di Roma ci indica quale è la vera riforma strutturale che deve fare l’Italia: ripulire lo Stato
Lo scandalo di Roma ci indica quale è la vera riforma strutturale che deve fare l’Italia. Non quelle che altri Paesi ci indicano con monotona insistenza, e che tardano a mostrare effetti dove sono state attuate, ma quella che serve a noi. Occorre ripulire il nostro Stato. Corruzione della politica e inefficienza della spesa sono due facce di un problema unico.
Parlare di mafia o di cupole dà poco l’idea di questo tipo di crimine organizzato nuovo e insieme simbolico, di dove può portare il declino italiano. Scopriamo una entità razionalmente dedita a sfruttare l’unica risorsa ancora abbondante nel nostro Paese, la spesa pubblica. Possiamo sospettare che ne esistano anche altrove, magari in forma non così sguaiatamente malavitosa come a Roma.
A posteriori, comprendiamo anche meglio la rabbia popolare contro le indennità degli eletti, certo da ridurre eppure indispensabili in una democrazia. Nasceva dalla sensazione che solo lì, in una nazione da lungo tempo in ristagno economico, i soldi si moltiplicassero con facilità: lo scialo dei rimborsi spese ne era, innanzitutto, un indizio.
Finora, non sapevano incontrarsi l’indignazione di massa contro i «costi della politica» e i ragionamenti sull’urgenza di rivedere a fondo le uscite pubbliche. A ogni tentativo di incidere era troppo facile rispondere «prima risparmino i potenti». Vediamo ora, invece, cosche attrezzate nello spremere guadagni da qualsiasi capitolo di spesa, perfino i più nobili.
Tutta la spesa discrezionale può nascondere malaffare; tutta va riveduta, resa trasparente al massimo. Ciò che Matteo Renzi ha detto sulle società partecipate degli enti locali è un buon inizio; porta tuttavia a domandare come mai i suggerimenti dati a suo tempo dal commissario alla spesa Carlo Cottarelli siano ancora dentro i cassetti.
Nella precedente ondata di scandali, 1991-1992, i vecchi partiti gestivano gli affari in prima persona. Oggi, meno radicati i partiti, fluttuanti i loro consensi, il business si è fatto autonomo, cosi da garantire favori anche nell’alternanza; ben insinuato nella burocrazia, protegge anche dall’emergere di forze nuove. Senza più ideologie, «dare spazio ai privati» (purché amici) o «pubblico è meglio» diventano slogan intercambiabili a seconda delle convenienze.
Soprattutto negli enti locali l’uso della spesa è troppo arbitrario, oltre che assai meno criticato dai mezzi di informazione. Attorno a Comuni e Regioni gira questo demi-monde di faccendieri privi di competenze serie in qualsiasi ramo, di imprese inadatte a competere su ogni mercato, di finte cooperative con pretesi scopi sociali, di fabbricatori di chiacchiere alla moda.
In una economia intorpidita, dove far soldi con un lavoro onesto è arduo, anche per le aziende la tentazione diventa fortissima. Un arricchimento improvviso, altrove improbabile, lì si può realizzare. Troppo rischioso imbarcarsi in una iniziativa di vera innovazione; meglio attrezzarsi a inscenare una «startup» finta, che ungendo certe ruote godrà di un buon sussidio.
E in tutto questo non ci sarebbe «nulla in più da tagliare»? Certo che c’è, ed è questa la via per arrivare a pagare meno tasse e per fare un po’ più di investimenti validi. Tutto ciò che le amministrazioni pubbliche fanno va verificato nei suoi esiti, va giudicato dai suoi effetti: in altri Paesi questo avviene.
In più, il Comune di Roma si trova in dissesto finanziario strutturale. Già prima che erompesse lo scandalo, stupiva che nessun politico di peso ambisse a esserne sindaco, carica così visibile non solo all’interno dei nostri confini. Temono che la capitale sia troppo difficile da governare? È un caso nazionale, questo, che prima di tutto merita un esame spietato dei conti.