Libero, 4 dicembre 2014
L’imprenditore che muore e lascia l’azienda in eredità ai suoi operai. È successo in Veneto: «Non voglio estranei». I 25 dipendenti ereditano tutto
Leonardo Martini, era un eroe sottotraccia. Produttore di cruscotti per auto dalla creatività invincibile, vedeva nella propria azienda, la Dioma di Vicenza, un possente scrigno d’affetti. Morto a 72 anni, senza figli, Martini lascia ora l’azienda in eredità ai suoi venticinque storici dipendenti. Un miracolo laico che pare scritto da Cesare Zavattini.
Gli operai, secondo specifica volontà testamentaria del paròn, dopo averne celebrato il funerale senza rito religioso nel capannone della ditta, acquisiscono così la proprietà di una florida impresa dal’67 esportatrice anche in Germania per Audi, Volkswagen e Saeco. Starà a loro, agli operai passati all’improvviso e senza preavviso dall’altra parte della barricata, da adesso, onorarne la memoria.
Quel che l’altro giorno è accaduto nel Veneto oppresso dai suicidi, ignorato dallo Stato, troppo spesso sottostimato dalle cronache, è la risposta silenziosa agli strali di tutti i Landini e di tutte le Camusso del mondo. L’Italia non è fatta soltanto di padroni crudeli dediti allo sfruttamento dei sottoposti. Ma è fatta anche – e soprattutto – di molti Leonardo Martini, la cui vita rende l’idea plastica del vero tessuto connettivo della nazione. La disoccupazione aumenta, le fabbriche chiudono; eppure è ancora qui, nel Veneto bello ma senza sorriso delle pagine di Ferdinando Camon e Andrea Zanzotto, che il tempo cristallizza le coscienze. Dignità estrema del lavoro, schiena dritta, cuore grande e taciturno. «Tera e acqua, acque e tera/da putini e da grandi/Siora tera a i so comandi/po’ se crepa e bonasera», scriveva Gigi Fossati, storico cronista del Polesine, della terra dei doveri inarrestabili e delle carsiche contraddizioni. Perché è in questi luoghi che gl’imprenditori sono diversi rispetto ai colleghi delle altre parti d’Italia. Qui i paròn trattano i propri operai come bande di fratelli; li coccolano come gente di famiglia; intrecciano la propria fortuna con la loro laboriosità. È nel Triveneto, terra d’imprese medie piccole e piccolissime come quella di Martini, che lo stakanovismo diventa strana pandemia.
Ed è questo l’unico posto d’Italia dove -direbbero, appunto, i sindacati illivoriti- «i padroni» non solo non godono delle disgrazie dei propri dipendenti, ma ne soffrono come fosse un fallimento personale. In questa terra, dove il patto di stabilità è una iattura che soffoca i comuni ad alta solvibilità, molte cose vanno al rovescio. Difficilmente, qua, troverete gli spietati capitani d’industria che ricercano il profitto soffocando l’etica sotto le presse e nelle catene di montaggio.
Questa è la terra dove i Bauli, i Rosso, i Benetton, i Del Vecchio e i loro meno noti epigoni sono nati e cresciuti coi propri operai. Leonardo Del Vecchio ha addirittura inventato, per i suoi, un welfare personale, assieme ad un ecosistema di protezione ispirato alle «comunità» di Adriano Olivetti e di Gaetano Marzotto. Qui il Jobs Act è un non-problema. E l’articolo 18, in qualsiasi sua forma, non è stato un modo semplice per disfarsi degli esuberi. E, quando avvengono, per gli imprenditori, i tagli al personale sono brandelli della propria carne, mutilazioni dolorosissime. Spesso la disperazione nel mettere sulla strada le famiglie dei propri operai, li spinge alla prostrazione, ai sensi di colpa, all’impotenza, al suicidio inteso quasi nel senso letterario di ribellione al destino. Questa zona d’Italia abbonda di martiri della burocrazia. Alla faccia della «cattiva frontiera» con la mitologia quasi nietzscheana del quattrino, con cui lo psichiatra Vittorino Anderoli, trent’anni fa, fa, giustificava il parenticidio di Pietro Maso con la fiamma insopprimibile dall’egotismo di massa del popolo del nordest. Tempi lontanissimi. Che, poi, «Nordest», se ci si pensa, è solo un’espressione geografica per parlare, in fondo, di un territorio che continua ad inghiottire in silenzio le prepotenze dello Stato debitore ma esattore; e di un popolo che mugugna ma sgobba, protesta ma alla fine le tasse le paga, sogna finalmente l’indipendenza ma non minaccia mai le armi.
Ecco, è in questo contesto che il funerale in capannone di Leonardo Martini dinnanzi ai suoi dipendenti, assume diversi e quasi poetici piani di lettura. L’azienda amata come la famiglia, i piccoli gesti per una grande speranza, la voglia di esportare un modello oltre la crisi. Avercene...