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 2014  dicembre 04 Giovedì calendario

Roberto Gervaso: «Come ho sconfitto la depressione e ho riconquistato la vita. Non riuscivo neanche a uccidermi, speravo nell’infarto. Non mi lavavo né mi vestivo. Ne sono uscito con autodisciplina e serotonina»

Dovevo immaginare da come mi ha accolto nel suo salotto che Roberto Gervaso avrebbe occupato la scena. Nel caso specifico ha rotto le regole dell’intervista che prevedono un intervistato e un intervistatore. L’intervistatore, cioè io, lo ha spazzato via senza farlo quasi parlare, prendendosi tutte le libertà.
Lui, che è sempre col farfallino, stavolta si presenta in vestaglia e in pantofole con l’aria mesta del convalescente. È come se volesse incarnare l’occasione del nostro incontro: l’uscita del suo libro, Ho ucciso il cane nero. Come ho sconfitto la depressione. Il cane nero, è il nome che dava alla malattia Winston Churchill, un depresso anche lui. Gervaso è sempre stato un ipocondriaco e non si fatica a pensare che abbia scritto con piacere delle sue sofferenze. «Tre crisi depressive – dice -, a 23, 43 e 71 anni. Complessivamente 10 anni di atroci patimenti. Ho scritto di getto. Quindici cartelle al giorno per 20 giorni. Volevo fare un bilancio dei miei settantasette anni. La mia vita professionale era conosciuta, quella intima no, così ho costruito un’autobiografia scandita da quei tre episodi di disperazione».
Assesta gli occhialini alla Gandhi e invece di continuare sulla depressione mi elenca le sue convinzioni sanitarie. «La salute è uno stato provvisorio che non annuncia nulla di buono. È per questo che si deve andare dal medico quando ancora si sta bene. Quando Vittoria (sua moglie, ndr) organizza una cena, a tavola c’è sempre il cardiologo (Roberto ha subìto sette ore di operazione a cuore aperto per l’inserimento di un paio di by pass, ndr) e un anatomopatologo che, in caso di decesso improvviso, possa fare la biopsia e, comunque, evitare i casi di morte apparente. Sono per anticipare le malattie con l’assunzione precauzionale di medicine. Il mio farmacista mi avverte sempre delle primizie: «Ho un nuovo antibiotico», «Me lo dia, lo provo», replico. Se tu ora avessi un accenno di labirintite, io avrei il farmaco adatto. Prima del tuo arrivo, facevo l’inventario del mio deposito. Ho una stanza dedicata a clisteri, supposte, misuratori, microclismi, euforizzanti, sonniferi e scatolette di Viagra che non uso da 15 anni. Al momento mi sento bene, anche se cammino maluccio. Per due ragioni: ho i piedi egizi, variante del piede equino, col destro a forma di banana, e il sinistro a melanzana; cui si aggiungono i postumi di un’importante operazione alla prostata, seguita da 42 sedute di chemio in un distretto – come capirai – alquanto delicato del mio corpo. Questo intervento ha avuto di negativo il rischio di flebite e di buono l’avermi finalmente reso impotente. Io che ho sempre avuto l’ossessione delle donne ero stanco di ingegnarmi a eludere l’occhiutissima vigilanza di Vittoria, che è molto possessiva e mi tratta come un bibelot (soprammobile, ndr). Ho quindi gioito per la fine delle mie tentazioni». Gervaso tace un istante, poi dice: «Sono il più grande scrittore morente».
Riesco a piazzare la seguente domanda: «La depressione è una variante delle tue mille ossessioni sanitarie?».
«È una cosa sé stante, peggiore di cento tumori. È così devastante che il suicidio mi sembrava un palliativo. Non mi sono buttato dalla finestra solo perché ero in uno stato letargico assoluto. Non avevo la forza di fare niente. Speravo in un arresto cardiaco. Piangevo dirottamente. Non mi lavavo e non mi vestivo. Lo faceva per me Vittoria. Di mio, ero uno zombie. Per farti capire. Se l’aereo che ha preso tua moglie ritarda di un’ora e non se ne hanno notizie tu vai in crisi e resti agitato, se anche poi tutto si chiarisce, massimo un pomeriggio. Un depresso che entra nella spirale ci resta dentro per cinque anni. Questo è successo a me. Ti racconto com’è nata la mia prima crisi a 23 anni. A 18 anni, incontro in treno una bellissima signora sposata, una parigina di nome Babette. Con lei, a Torino, la mia città, passo una notte indimenticabile. Ma era troppo sofisticata per me, ragazzino senza soldi. Così, dopo averle promesso che l’avrei cercata, non mi sono fatto più vivo. Cinque anni dopo, ero negli Usa con una borsa di studio. Un giorno, in treno da New York a Detroit, mi viene in mente Babette e mi convinco che è morta buttandosi nella Senna per colpa mia. Questo mi rinchiude per tre anni nel tunnel. Facevo continue assurdità. Tipo scrivere lettere a Fidel Castro supplicandolo di graziare dei dissidenti che erano stati condannati a morte. Sai quale era la causa profonda della depressione? I miei genitori si erano separati e mia mamma, presa dal suo sconforto, pensava meno a me. Sentendomi abbandonato dalla figura femminile centrale di quell’epoca, ero finito nel gorgo. Anche nella mia ultima depressione, quella dei 71 anni, fa capolino Babette. Ho un amore letterario per gli ingredienti cimiteriali. Così accetto l’invito di un mio conoscente impresario di pompe funebri di visitare il suo atelier. La vista delle bare mi ricorda di nuovo la parigina presunta suicida e ricado in depressione. Ma anche qui la vera causa fu la sensazione di essere abbandonato dalla donna centrale della mia vita: Vittoria. Eravamo diventati nonni e lei era continuamente a Milano per dare una mano a nostra figlia nell’accudimento dei bambini. Così io, solo a Roma, riprecipito nel gorgo. Me la sono cavata dopo cinque anni di sofferenze, con molta autodisciplina e l’aiuto della serotonina, un antidepressivo che lentamente mi ha tirato fuori. Dalla depressione non si entra né si esce di colpo. Ci vuole tempo, ma si deve sperare.
Resta la tua depressione dei 43 anni. Sbaglio o coincide con la faccenda dell’iscrizione alla P2?
«Mentre stavo leggendo e Vittoria guardava la tv, sento che grida: “Hanno trovato le liste della P2”. Chissenefrega, faccio io che non ci vedevo niente di inquietante. “Saranno guai”, dice lei che vedeva più lontano. Infatti, venne giù il mondo. Entrai in depressione perché non capivo quel mio dovermi sentire colpevole di non essere colpevole di niente. Mi ero iscritto perché mi piaceva la massoneria e volevo scriverci un libro, come poi ho fatto. In realtà, la P2 era un’entità affaristica contrapposta a quella di Cuccia e Agnelli, che aveva vinto. Tutto qui. Io invece fui risucchiato in una spirale kafkiana».
Dai miei calcoli, negli anni delle tue depressioni hai pubblicato 10 libri. Alla faccia dell’astenia!
«Erano raccolte di interviste e articoli scritti prima. Ti assicuro che quando sei dentro non sei capace di muovere un dito. Se anche ti fanno Papa o Imperatore, non te ne fotte nulla. Invidi i barboni. Loro almeno vanno alla mensa e possono godersi una polenta. Io non potevo».
La situazione italiana contribuisce a deprimerti?
«Non voto da 10 anni. Nessuna illusione su un Paese che non me ne ha mai suscitate. L’Italia è una Nazione senza Stato che sta in piedi perché non sa da che parte cadere. Il suo destino è il ritorno alla condizione servile attraverso la colonizzazione. Quella economica è già in atto, se pensi che la Pernigotti, la cioccolata della nostra infanzia, è passata ai turchi».
Matteo Renzi ti ringalluzzisce?
«Ha mandato in soffitta i vecchi turbanti e ridicolizzato i radical chic. Mi ha ridato speranza, ma solo speranza. È un venditore di fumo in technicolor». L’euro e l’Ue?
«Se ci fosse un referendum sull’euro, l’80 per cento degli italiani voterebbe contro. Io sarei il primo. L’Ue ha sovrapposto alla già scarsa burocrazia italiana un’altra ancora peggiore e strapagata».
Hai un tuo candidato per il Quirinale?
«Un ragioniere di buon senso, beneducato, scapolo. Che rientrando a casa, trovi la cena fatta dalla portiera e prima di dormire tiri giù i conti del giorno. Al di là dell’utopia, scelgo Paola Severino, l’ex Guardasigilli, donna equilibrata. Entrando al ministero, si raccoglieva sempre davanti al busto di Alfredo Rocco, il grande giurista del Ventennio».
Me ne vado. La prima pillola che prenderai appena mi volto?
«Un betabloccante. Unico difetto: deprime un po’ la sessualità. Ma che m’importa? Più depresso di così!».