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 2014  dicembre 04 Giovedì calendario

L’Arabia Saudita sta puntando a spingere il petrolio a 60 dollari al barile, un livello che ritiene sufficiente a respingere la concorrenza dello shale oil americano senza arrecare danni eccessivi alle sue finanze e a quelle degli altri paesi del Golfo Persico

È davvero a 60 dollari al barile che l’Arabia Saudita sta puntando a spingere il petrolio, un livello che ritiene sufficiente a respingere la concorrenza dello shale oil americano senza arrecare danni eccessivi alle sue finanze e a quelle degli altri paesi del Golfo Persico, che all’interno dell’Opec hanno appoggiato la sua strategia:?lasciare il tetto di produzione fermo a 30 milioni di barili al giorno per costringere altri a “tagliare” per effetto dell’inevitabile crollo dei prezzi.
Sono state fonti della Dow Jones a fornire un’ulteriore conferma alle indiscrezioni che circolavano già durante il vertice Opec (si veda Il Sole 24 Ore del 28 novembre). E la notizia rischia ora di pesare sulle quotazioni del greggio, che superano ancora di una decina di dollari il presunto obiettivo di prezzo dei sauditi. Ieri il Brent ha chiuso sotto quota 70 $ per la prima volta da febbraio 2010 (69,92 $/bbl, -0,9%), mentre il Wti ha guadagnato lo 0,8%, sostenuto da un inatteso calo di 3,5 milioni di barili delle scorte di greggio Usa, tutto legato a una comprensibile accelerazione delle raffinerie.
L’attesa dell’Opec potrebbe comunque non durare troppo a lungo. Al contrario. Lo shale oil americano potrebbe frenare «piuttosto rapidamente», avverte Rex Tillerson, il ceo di ExxonMobil, l’unica major con una presenza significativa anche nelle attività di fracking. «La natura di questo business è un pozzo per volta, una trivella per volta. Quindi si ha la possibilità di fare aggiustamenti», ha spiegato il manager in una rara intervista concessa alla Cnbc. «Un sacco di gente è entrata in questa arena e ci sarà un po’ di selezione».
Tillerson non è isolato nel ritenere che non occorre attendere che le quotazioni del greggio scendano sotto i costi di produzione per osservare un rallentamento dello shale oil. Anche se le società più virtuose hanno ormai spinto il breakeven fino a 40-50 dollari al barile, il settore nel suo insieme – oberato di debiti a livello spazzatura e sempre più spesso “distressed” o a rischio di ristrutturazione – potrebbe presto vedere assottigliarsi i finanziamenti e per i soggetti più fragili potrebbe addirittura profilarsi la bancarotta.
Prima ancora che questo accada, la caduta delle quotazioni del greggio – quasi il 40% dall’estate scorsa – è già stata uno shock abbastanza forte da spingere molte compagnie quanto meno ad astenersi dal mettere nuova carne al fuoco. Statistiche di DrillingInfo indicano che il mese scorso negli Usa le richieste di permessi di trivellazione sulla terraferma – in gran parte legati proprio allo shale – sono crollati del 37,5%: si è scesi a 4.520 nuovi pozzi dai 7.227 di ottobre, quando la stessa DrillingInfo aveva già registrato, in alcune aree, una diminuzione. Allen Gilmer, ceo della società di ricerca, non ha dubbi sulla diagnosi: si è trattato di «una risposta molto rapida» al ribasso del petrolio. Del resto il Wti ha perso ben il 17% in novembre, finendo ai minimi da 5 anni (66,17 $/bbl).