La Stampa, 4 dicembre 2014
Quale futuro per l’acciaio? Qualità, innovazione e addio alle super produzioni. Il settore della siderurgia è ancora strategico in Italia: vale il 2 per cento del Pil
La buona notizia è che l’acciaio ha un futuro, quella cattiva è che, per continuare a restare vive, le fabbriche italiane dovranno cambiare pelle, in fretta. Qualcuno l’ha già fatto: la Ori Martin di Brescia ha abbandonato la produzione di tondi per cemento armato e scommesso su prodotti particolari, dedicati all’automotive. Un successo. Foroni, nel Varesotto, fa barre in acciaio speciale per la bionica e cresce da anni.
Mentre i colossi faticano, stretti tra crisi ambientali e industriali, chi ha puntato forte sulla specializzazione continua a correre. «Per i Paesi come il nostro l’unica soluzione è investire sulle nicchie, non sui prodotti standard. Quelli li faranno la Cina, l’India, dove c’è massa critica e il costo del lavoro è molto più basso», spiega Gianfranco Tosini, direttore dell’ufficio studi del portale specializzato Siderweb. Secondo le proiezioni al 2030 sarà proprio Pechino il padrone dell’acciaio mondiale, con una quota del 51% (oggi è il 49%, ma solo 18 anni fa era il 12,7 per cento). Crescerà anche l’Africa e, grazie alla disponibilità di gas a prezzi bassi, gli Stati Uniti resteranno in gioco.
Sarà soprattutto l’Europa, ridotta a un peso del 9%, a pagare il prezzo più alto. «Pochi, però, hanno il nostro know how – dice Tosini -. Dobbiamo trasformarci da produttori di materiali a esportatori di tecnologie». La ricaduta occupazionale, però, sarebbe devastante, perché l’Italia parte da numeri importanti: con 24,1 milioni di tonnellate prodotte durante lo scorso anno, nel Vecchio Continente è seconda solo alla Germania. Il fatturato complessivo delle industrie associate a Federacciai vale 34 miliardi di euro, più del 2% del Pil. «È un settore strategico», spiegava ieri il ministro allo Sviluppo, Federica Guidi, mentre il premier Renzi confermava che tra le soluzioni al vaglio per Taranto c’è la nazionalizzazione, almeno temporanea, in attesa dell’ingresso di nuovi investitori. Eppure, allo Sviluppo, sanno che agli imprenditori serve un cambio di mentalità. Le iniziative del governo e dei privati – da Terni a Piombino – stanno tamponando una situazione complessa soprattutto per quanto riguarda il lavoro, ma per il rilancio non può bastare, spiegano gli analisti. Il 66% delle aziende italiane, attive nella siderurgia, nel 2013 ha registrato un calo di fatturato, e negli ultimi sette anni la grande crisi ha bruciato oltre tremila posti. Un’erosione continua. Un’ottantina è appena stata salvata, grazie all’investimento del gruppo piemontese Otlec, che ha scommesso sullo stabilimento tarantino di Marcegaglia Buildtech. Tra gli imprenditori circola un report che contiene il più allarmante dei dati: il consumo apparente di acciaio, ovvero l’indicatore che include le scorte delle imprese, dal 2006 a oggi è crollato del 42%.
Su tutto il settore inoltre s’allunga il fantasma dell’Ilva. «Se chiudesse usciremmo dal settore siderurgico: vorrebbe dire perdita di Pil e di altre migliaia di posti di lavoro», ammette il presidente di Confindustria Squinzi. «Se sparisse Taranto, per quanto riguarda i prodotti piani, l’Italia diventerebbe totalmente dipendente dai gruppi stranieri – conferma Tosini -. Salvarla è giusto, ma a quale prezzo?».