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 2014  dicembre 04 Giovedì calendario

Niente buonismo, è Natale. Escono i racconti più cattivi e autobiografici di Dickens. Il Natale si ama o si odia, è un fatto, e non è necessario avere il cuore avido di zio Scrooge o il desiderio di futuro di David Copperfield per provare uno dei due sentimenti: essi possono esistere insieme perché si animano dello stesso fuoco: l’infanzia

Se ormai non si torna più a casa per le vacanze di Natale, è perché il tempo è trascorso, e si è fatto adulto, e gli si preferisce la settimana bianca o la mostra di Rembrandt a Londra. Oppure nulla: si è divorati dal lavoro fino alle 19 della vigilia, alle casse della grande distribuzione o ai desk dei quotidiani. «Se», scrive Dickens nel 1850 su The Household word, il magazine letterario da lui stesso fondato, «ormai io non torno più a casa per le vacanze di Natale: finché il mondo esisterà, continueranno a tornare a casa altri ragazzi e altre ragazze». Allora il fatto che si festeggi il Natale ci riporterà a casa tutti: prosegue: «o almeno lo dovremmo fare».
E, in assenza di viaggi veri, quello che Dickens propone in questi brevi racconti che aveva destinato alla sua rivista (e che sono rimasti fino a oggi inediti in Italia: li ha tradotti Mattioli 1885), è un viaggio al contrario: la possibilità fantastica di estrarre da un albero di Natale doni e decorazioni così come i ricordi: l’albero in questione cresce al contrario, perché cresce il ricordo, ma decresce fisicamente perché l’uomo si fa grande e ciò che da piccoli ci pareva grande da grandi ci pare piccolo.
Il Natale si ama o si odia, è un fatto, e non è necessario avere il cuore avido di zio Scrooge o il desiderio di futuro di David Copperfield per provare uno dei due sentimenti: essi possono esistere insieme perché si animano dello stesso fuoco: l’infanzia. L’infanzia, la fanciullezza non è un tempo: è un luogo, il luogo verso cui si torna. Dickens nel 1850 può permettersi di addobbare davanti agli occhi adulti dei suoi adulti lettori il suo albero. E si ama o si odia il Natale a seconda della distanza dall’infanzia che si vuole, o si riesce a tenere. E della modulazione che di essa si è avuta. Esiste un fanciullino in Dickens adulto che, come i bambini, vive di pensiero magico, e trasforma e anima ciò che vede, e anche quando lo rilegge, perché gli occhi sono malinconicamente rivolti al passato, e lo fa rileggere ai suoi lettori, ( ché di quasi centocinquant’anni fa si parla) trova in ciò che vede “la sua bellezza primitiva”. Quindi fuori dal tempo. È solo una delle dicotomie che rendono unico il Natale di Dickens, cioè il tempo tranciato a metà: da un lato il fanciullino, e dall’altra l’età adulta. Il Natale si consuma nel suo giusto mezzo: si può vivere se si riesce a filtrare l’epoca adulta con gli occhi dell’infanzia. Quanto più ci si allontana dal fanciullino tanto meno ha senso il Natale. Ma il gioco è questo: dell’adulto che si può permettere di essere fanciullino, e del fanciullino che intravede nelle maschere e nelle paure del Natale ciò che sarà per sempre perduto. Allora nessun Parlamento in cui può essere invitato Sir Charles Dickens avrà mai una facciata bella quanto quella della casa delle bambole – non sua, ma aveva il permesso di giocarci–; e la “nobile mosca” dell’arca di Noè era appena più piccola dell’elefante. E però la maschera appesa all’albero, quella faccia senza occhi appesa lì, senza alcuna intenzione di spaventare, da un adulto ormai incapace di scorgervi alcun lato inquietante: «chissà quale oscura anticipazione e quale terrore del cambiamento universale che inevitabilmente riguarderà ogni volto, e lo rende per sempre muto e inespressivo»: questo è il concetto che ha Dickens dell’età adulta. Ed ecco che all’interno di un momento estremamente rassicurante si scatenano le tensioni clandestine. Intorno a quei fanciulli quale mondo piove e precipita? L’inventario c’è quasi al completo: tensioni famigliari, tra parenti fortunati, ovvero ricchi e pieni di compagnia, versus quelli sfortunati, ovvero poveri, o senza più nessuno, che solo al desco natalizio hanno la possibilità di immaginarsi vite diverse. Le prepotenti tensioni sociali nello spazio di un college, dove un vecchio lettore di latino povero e “lento” viene sbeffeggiato dai rampolli ricchi in un nonnismo capovolto. Ma se ne trovano di più dolorose e laceranti ancora: Dickens attua una “correzione” del Natale per cui colui che viene indicato dal curatore (che qui si firma Boz, come lo pseudonimo che Dickens usò per i suoi bozzetti) come l’inventore del Natale, in realtà è lo stesso che lo tinge di vernice realistica. Se ha un senso ripescare i racconti inediti di Dickens è proprio perché non sono ancora passati nel depuratore Disney. E allora può capitare di rincontrare la cosa che letterariamente più assomiglia alla verità dei fatti: la cronaca. Nel racconto che dà il tito- alla silloge Le ultime parole dell’anno vecchio, l’Anno 1850, personificato, ricorda sul suo letto di morte che (durante se stesso) due bambini trovati a rubare delle pagnotte e che si sono difesi dicendo che «stavano morendo di fame» sono stati condannati alla fustigazione presso la Casa di Correzione. E poi più avanti, ricordando che era nato un principe, immagina quel pargolo reale, privato di tutte le cure di corte e messo nella stessa situazione dei piccoli ladri, rubare anche egli, e derivarne la fustigazione. Cose che accadono, e narrazioni in cui gli strati sociali vengono anche essi confrontati come piccolo/ grande. Sono i conflitti sociali di cui Natale è detonatore. Un Natale che fa paura, che semina sconcerto, che fa ripiombare in antiche vertigini, che lascia sgomenti. Un Natale urticante. Il Natale che oggi è dei mendicanti e dei detenuti: il Natale con tutto il senso che il Natale porta, non con il senso unico liberista. Piuttosto il senso profondo che può dischiudere la doppia possibilità: amarlo oppure odiarlo. È il lessico famigliare, sono le household words del titolo della rivista (a sua volta tratto da un verso dell’ Enrico Vdi Shakespeare: “Familiar in his mouth as household words”).
Infatti, tra i detrattori del Natale, aleggia sempre un motivo: è che troppo ricorda loro chi non c’è più. Chiunque abbia vissuto un lutto stretto sa di cosa qui si parli. E anche Dickens lo sa, e anche per questo trova la giusta collocazione sull’abete: «spazi vuoti tra i tuoi rami, sui quali gli occhi che ho amato hanno brillato e hanno sorriso; e da cui si sono accomiatati».