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 2014  dicembre 04 Giovedì calendario

L’urlo del Laocoonte. Il personaggio della celebre scultura del I secolo avanti Cristo grida o no? Una questione che ha pungolato gli studiosi da Winckelmann ai giorni nostri. E che trova una risposta nel quadro di Munch

Ritrovato nel gennaio 1506 (il 10, secondo un documento scoperto recentemente da L. Calenne e A. Serangeli), il Laocoonte oggi nei Musei Vaticani fu immediatamente riconosciuto come la statua di cui parla con altissima lode Plinio il Vecchio, ricordandola «nella casa di Tito imperatore». Forse anche per questo il papa Giulio II la volle per sé, e da subito gli artisti presero a disegnarla e a imitarla, i collezionisti ne ordinarono copie in grande e in piccolo, antiquari e archeologi ne studiarono ogni dettaglio. Nel Rinascimento e nel Barocco, come ha scritto L. Ettlinger, il Laocoonte servì come supremo exemplum doloris: l’intensità espressiva di un padre che muore impotente assieme ai figli inermi apparve un modello insuperabile, un’esplosiva concentrazione di pathos. Creazione di tre maestri di Rodi (ma operanti a Roma) del I secolo a.C., il Laocoonte rientrava così in circolo nel primo ’500 come un’opera «nuova», ma modellizzabile proprio perché antica. Come ha scritto Warburg, «il gruppo dei dolori di Laocoonte il Rinascimento, se non lo avesse scoperto, avrebbe dovuto inventarlo, proprio per la sua sconvolgente eloquenza patetica».
Prestissimo il Laocoonte diventa modello per la passione del Cristo: così è, per esempio, in una placchetta bronzea del Moderno, in una scultura di Cristoforo Solari, nell’Incoronazione di spine di Tiziano al Louvre. Di questa tradizione era consapevole Hegel, che in un passo ben commentato da Federico Vercellone contrappone il «dolore immane di Dio che soffre in quanto è uomo» alla «contorsione di muscoli che potrebbe indicare un grido» del Laocoonte. Ma il Laocoonte della celebre scultura, chiediamocelo, grida o no? Non è una domanda oziosa, se vi ragionarono, da posizioni diverse, Winckelmann, Lessing, Goethe e Schopenhauer, e se vi sono dedicati tanti studi moderni (negli ultimi anni, Vercellone e Meyer-Kalkus). Forse proprio la sua diffusa assimilazione col Cristo influì su questa discussione, che si muove fra due estremi: se Laocoonte stia, nel momento in cui è rappresentato, urlando di dolore, o piuttosto trattenendo la voce ed esprimendo lo spasimo solo mediante il corpo. Per dirlo altrimenti, se la muta eloquenza del marmo rimandi a un grido articolato, o piuttosto a un grido trattenuto.
Il più famoso racconto letterario del mito di Laocoonte, ucciso davanti a Troia dai serpenti inviati dagli dèi, è l’Eneide di Virgilio: ma il Laocoonte di Virgilio, mentre «si sforza di sciogliere con le mani i nodi dei serpenti, innalza al cielo urla terribili». Questo raffronto complica le cose, perché obbliga a confrontare i mezzi espressivi della poesia e delle arti figurative, secondo il detto di Orazio «Ut pictura poesis»; tanto più che non sappiamo se quei versi di Virgilio siano stati scritti prima o dopo il Laocoonte. Ma la ricerca espressiva dei tre maestri rodii (Agesandro, Atenodoro, Polidoro) innescò cento altri filoni d’indagine, fra cui forse il più singolare sono le ricerche di un medico francese, G. B. Duchenne de Boulogne (1862), che scelse il volto del Laocoonte come pietra di paragone per i suoi studi sull’espressione del dolore. Mediante scariche elettriche, egli stimolava i muscoli facciali dei pazienti di un ospedale psichiatrico, documentando le alterazioni in un atlante fotografico che ebbe grande successo. Sulla base dei suoi crudeli esperimenti, Duchenne si spinse anzi fino a «ricostruire» un Laocoonte «fisiologicamente corretto».
Una risposta alla domanda ormai antica, se il Laocoonte del gruppo vaticano stia o meno gridando, viene da un dipinto molto famoso, L’Urlo di Munch (1893). Studi recenti vi hanno individuato una risposta al dibattito sull’urlo di Laocoonte, mediata dall’atlante fotografico di Duchenne. Come ha scritto Svenaeus, «sia per Winckelmann sia per Lessing quello del Laocoonte è un urlo, ma un urlo trattenuto: secondo Winckelmann, perché urlare sarebbe al di sotto della sua dignità, secondo Lessing perché la sua rappresentazione andrebbe oltre l’ambito delle arti visive. La risposta di Munch è una risposta estetica: quello che si era ritenuto non-bello, per lui contiene di fatto la quintessenza della bellezza: la vita stessa, nei suoi vari stadii; l’urlo vero e proprio, nelle sue varie fasi». Insomma, L’Urlo di Edvard Munch è un anti-Laocoonte.
Ma la stessa domanda risuona ancora oggi, ad esempio in una bella pagina del Viaggio in Italia di Guido Ceronetti, recentemente ripubblicato da Einaudi: «Tutta la laocoontosofia di Schopenhauer è per illustrare perché Laocoonte non grida, convinto che l’opera di scultura rifiuta il grido. Ma il Laocoonte di Virgilio grida, e questo grido sembra sia stato raccolto dalla bocca del Laocoonte vaticano. È stato un errore materialistico aver negato il grido a Laocoonte: il suo è un grido di profondità che fa tremare le colonnine del bel portico circolare dove è stato collocato perché si sfogasse. Quell’uomo soffocato e avvelenato a morte da enormi serpenti inviati con urgenza dalla Divinità è un’immagine meditabile dell’umanità d’oggi sulla terra». Ma perché è così importante chiedersi se Laocoonte grida o no? Ceronetti ci offre una chiave importante, che abbraccia il Laocoonte e L’Urlo di Munch: grida che non sono solo una questione di estetica, ma di identificazione dello spettatore nella scultura o nel quadro. Immagini che hanno un valore esperienziale, esistenziale: che ancora interrogano la condizione umana.